Controcorrente

"Alla cucina di uno chef serve la Francia, non la tv"

Dieci locali, due stelle Michelin e niente comparsate: "All'inizio venni stroncato, piangevo con mio padre. I miei amori ai fornelli? Solo due"

"Alla cucina di uno chef serve la Francia, non la tv"

Per entrare a Casa Perbellini si suona il campanello, anche se Casa è il nome del ristorante e non l'abitazione. L'edificio antico si affaccia sulla basilica di San Zeno in una delle più suggestive piazze di Verona. Soffitto a travi, un'affascinante cantina sotterranea a volta in pietra e mattoni stipata di bottiglie soprattutto francesi, e una cucina completamente a vista. I cuochi lavorano davanti ai clienti in un silenzio surreale: chi pensa che ai fornelli volino ordini urlati si troverà in un ambiente ovattato, casalingo, sincronizzato, dove ci s'intende a sguardi. È lo stile di Giancarlo Perbellini, chef con 2 stelle Michelin e dieci locali tra Verona, Milano, Venezia, Hong Kong e, da pochi mesi, Bahrein.

Perbellini, 54 anni, è uno chef antidivo, diventato famoso senza andare in tv ma che è rimasto lontano dai teleschermi anche dopo. Vent'anni fa ha trasformato uno sconosciuto paese sepolto nella nebbia, Isola Rizza, in una calamita di gourmet da tutto il mondo e ora gestisce locande e bistrot di grande successo, oltre che la sua Casa, luogo esclusivo con 24 coperti quasi sempre prenotati da settimane. Il suo nome è legato al dolce di famiglia, la Millefoglie.

Un cuoco nato in una famiglia di pasticcieri.

«Pasticcieri e cuochi, perché mio nonno aveva la passione di cucinare. Nei pranzi importanti c'era lui ai fornelli. Aveva lavorato in Germania e Austria e mentre faceva il pasticciere preparava anche qualche catering, cioè andava a far da mangiare nelle case. Fino al 1952 Perbellini è stato ristorante, bar, pasticceria e albergo; poi i due fratelli si sono divisi, mio nonno ha tenuto la pasticceria e mio zio il resto. A Bovolone, il nostro paese nella pianura veronese, c'è ancora il bar Perbellini, di proprietà dei miei cugini ma non più gestito da loro».

È stato il nonno il suo «masterchef»?

«Avevo un grande feeling con lui. Un altro mio zio aveva frequentato la scuola alberghiera ma alla fine scelse di fare il pasticciere e non il cuoco. Solo questo nipote che sono io ha preso la passione del nonno, e anche di mia nonna: era lei che cucinava pranzo e cena. Una famiglia dove si mangiava molto bene».

Ha frequentato la scuola alberghiera?

«A Recoaro Terme con il professor Matteo Lovato. Allora le due scuole più importanti erano ad Abano e Stresa, poi c'era quella di Recoaro. Quando la frequentai io era stata ristrutturata da poco. Scelta fortunata, straordinaria, perché da quella scuola sono usciti molti grandi chef».

Per esempio?

«Io, Carlo Cracco, Corrado Fasolato che ha preso due stelle al Metropol di Venezia e adesso ne ha una allo Spinechile di Schio. Ebbi la fortuna di seguire un professore giovane con la grande voglia di stimolare le persone. L'alberghiero è stata una grande scuola. Adesso non più».

Perché? Masterchef l'ha trasformata in una casa dei sogni?

«Non trasmette che cos'è questo lavoro. Chi s'iscrive spesso lo fa perché è una scuola materasso. Manca un know how da parte di chi insegna, non si impara più a disossare un pollo o distinguere un branzino pescato da uno allevato».

La vera scuola è sui banchi o ai fornelli?

«La scuola dovrebbe comunque dare una tecnica di base. A scuola ho imparato a fare le patate, i consumé, le guarnizioni: tutto questo non esiste più. Un giorno a uno dei miei ragazzi ho detto di prendere il Pellaprat e lui non sapeva che cosa fosse».

Appunto: che cos'è?

«Henri-Paul Pellaprat fu il cuoco francese più famoso al mondo e i suoi manuali sono la bibbia della cucina classica. Noi eravamo obbligati a comprare il Pellaprat; oggi non esiste più. È vero, sono cambiate tante cose, ma una base ci vuole».

Un cuoco diventa più famoso in tv o in cucina?

«Sono lavori diversi. Io faccio il cuoco e il ristoratore. In tv sono andato: avevo un programma sul Gambero Rosso channel dove però cucino come al ristorante, non faccio uno spettacolo dove si finge di preparare un piatto in venti minuti. Ho aperto Casa Perbellini anche per fare capire alla gente che quanto si vede in tv non è reale. Dietro un piatto ci sono otto mani, quattro teste, c'è pensiero, squadra, manualità. Per preparare certi piatti ci vogliono due giorni».

Esagerato.

«Le basi e i fondi non s'improvvisano. È un modo di pensare la cucina in maniera diversa».

Intende dire che Masterchef è un fast food?

«Dipende da che cosa si vuole mettere in tavola. Certo, ci sono anche piatti che si possono preparare in modo semplice e veloce».

È mai stato invitato a Masterchef?

«Mi hanno chiesto di andare, ho risposto di no. Qualche amico mi ha rimproverato, io però sono così. Loro sono tutti amici, ma la tv è una finzione».

Quali sono stati i suoi maestri?

«Ho avuto un sacco di innamoramenti. Ho fatto due grandi esperienze a Verona, al Marconi e al 12 Apostoli, allora uno dei dieci grandi ristoranti in Italia. Poi sono arrivato a Imola, dove Valentino Marcattilii mi ha aperto un mondo totalmente nuovo, e successivamente in Francia ho conosciuto Morisset, chef straordinario che mi ha dato tanti impulsi e tanta voglia. Ho lavorato al Taillevent e all'Ambroise di Parigi e alla Terrasse di Juan les Pins. Erano gli anni Settanta, in Italia Marchesi non era ancora nessuno mentre la Francia aveva già Bocuse, Vergé, Troisgros che giravano il mondo. Devo dire che in 40 anni forse noi siamo diventati più importanti di loro».

Uno chef potrebbe non passare dalla Francia?

«No. Non per copiare le ricette, ma per capire l'organizzazione e che cosa vuole dire valorizzare i prodotti e un lavoro artigianale come quello del cuoco».

Come si conquistano le 2 stelle?

«Facendo da mangiare bene per i clienti. E insistendo in quello in cui si crede. Una sera, era il 1992 e avevo aperto tre anni prima, arriva un giornalista gourmet. Il ristorante aveva un menù fisso con vini in abbinamento. C'era un gruppo di persone che volevano mangiare bene ma senza enormi pretese, non era la serata giusta per un ospite come lui. Mi asfaltò, me ne disse di tutti i colori. Quando se ne andò telefonai piangendo a mio padre, e lui mi disse di insistere nelle scelte in cui credevo. Quattro anni dopo ebbi la prima stella e dopo sei arrivò la seconda».

Come mai scelse un posto come Isola Rizza?

«Ero molto giovane. Avevamo visto un vecchio mulino ma non eravamo riusciti a ottenere i permessi che volevamo. Mio padre mi convinse ad adattare un capannone, pensato e realizzato da noi. Roba da matti. Fu un grande errore ma mi tirò fuori la voglia di arrivare».

Però Isola Rizza è diventata famosa nel circuito dei gastronauti.

«Non tutti l'hanno capito. A molti sindaci non poteva fregare di meno».

Nessuno è profeta in patria.

«Dipende. Non era un luogo prestigioso, ma una volta entrati si prendeva atto che il viaggio era giustificato. Ricordo la prima volta che ho mangiato da Pino Cuttaia a Licata, un posto dove bisognava andarci apposta. Per lui era una scelta di vita, perché stava a Torino e voleva tornare dalle sue parti. Siamo diventati molto amici».

Cuoco e imprenditore di locali: perché questa scelta?

«Un po' per passione, un po' per goliardia e anche come investimento. Abbiamo fatto una società con amici ristoratori e alcuni dei ragazzi che lavoravano con noi. Sono tutti andati bene al punto che in qualche caso i ragazzi che ci lavoravano se li sono comprati».

Poi il salto a Hong Kong.

«Il primo ristorante che ho aperto da solo è Casa Perbellini, senza soci o familiari, con soldi prestati dalle banche. A quasi 50 anni è stata la mia svolta, ho cominciato a fare l'imprenditore in prima persona. Ho aperto la mia prima Locanda a Hong Kong con un partner locale dopo Forte Village in Sardegna, dove d'estate mandavo metà della brigata perché a Isola Rizza si lavorava meno. Riuscivamo a fare alta qualità con ottimi numeri e prezzi molto attenti. Da lì è venuta l'idea di fare i bistrot. Ma ho anche cominciato a fare i conti: finché ero in società non mi occupavo della parte finanziaria. Ora se ne occupa Silvia, la mia compagna. Hong Kong mi ha aperto un mondo. Ho avuto una spalla insostituibile in Antonio Cacciapaglia che oggi è a Milano».

Il suo menù «Assaggi» costa 149 euro più i vini. Come mai i grandi chef sono così cari?

«Quando cominciai, negli anni '70, il primo costo di un locale era la materia prima. Oggi è il personale».

Perché ci vuole più gente?

«Il costo del lavoro è alto. A Casa Perbellini, che fa venti coperti a pranzo e venti a cena, abbiamo un solo dipendente in meno della locanda Quattro cuochi, accanto a piazza Bra, che ne fa 200 al giorno. Là metto in tavola bicchieri da tre euro, qui costano dai 16 ai 40, a volte più di una bottiglia di vino. A Hong Kong con gli stessi numeri il personale costa un quarto».

In Bahrain, dove lei ha aperto da poco, come funziona?

«Chef e sous-chef prendono come in Italia perché il mercato è internazionale. Gli altri cuochi guadagnano sui 400 euro al mese».

Che piatti le chiedono nei Paesi arabi?

«Siamo il ristorante dello storico albergo a cinque stelle di Manama, è gestito da gente del luogo, la clientela è affezionata. Noi proponiamo la nostra cucina con piccole variazioni. All'inizio, per esempio, non avevamo inserito il maiale ma loro ce l'hanno richiesto per la clientela internazionale. E il Bahrain è l'unico Stato arabo dove si può bere dappertutto».

Che rapporto ha con la millefoglie?

«Fa parte della storia di famiglia ma l'originale si trova soltanto a Casa Perbellini, secondo la ricetta con una base di uova, zucchero e vaniglia. Altrove aggiungiamo il latte per evitare che la crema si sieda. Qui da me il latte non c'è».

E lo «strachìn»?

«Il formaggio non c'entra. Appunto: la crema si straca presto, si stanca, non sta su: va fatta e mangiata entro 10 minuti. Nella mia vita l'avrò vista fare in casa massimo 10 volte da mio nonno. È uno zabaione non montato con albume montato che, essendo crudo e montato al momento, presto comincia a sciogliersi. Ricordo a Bovolone la signora Scola Gagliardi che voleva solo l'originale. A tavola al momento del dolce mandava il maggiordomo e telefonava: Parte. Ora, su insistenza di una giornalista, mi sono deciso a scrivere il libro della millefoglie: uscirà a giorni con 52 ricette dolci e 8 salate».

C'è un piatto che si trova in tutti i suoi locali?

«La millefoglie. E poi da quest'anno il guanciale di vitello brasato, l'unico altro mio piatto replicabile e appartenente alla tradizione. L'ho ritirato dalla carta di Casa Perbellini e ho cominciato a proporlo altrove».

Come sceglie i suoi cuochi?

«La maggior parte delle volte da consigli di amici ristoratori. A Casa Perbellini facciamo una cucina molto cucinata e abbiamo bisogno di ragazzi stimolati e che abbiano qualcosa da dare. Per me il cuoco rimane un artigiano, la manualità e la parte cucinata resta fondamentale. Mio padre non ha studiato ma nessuno fa il lievito come lui».

Come mai lei ha fatto il cuoco e non il pasticciere?

«È un lavoro troppo monotono».

Perché la cucina a vista nella sala di Casa Perbellini?

«Ho realizzato un sogno. Per 24 anni ho avuto una cattedrale, chiunque entrava chiedeva perché un ristorante in un capannone. E notavo che la gente a volte non veniva per l'imbarazzo di non sapere quale posata usare. Desideravo una cosa diversa.

E poi non volevo soltanto raccontare la mia cucina, ma far vedere quello che facciamo».

Commenti