Può un ristorante funzionare bene (o almeno benino) e chiudere? Può trovarsi in uno dei food district più vivaci della capitale gastronomica italiana, avere al comando due chef blasonate - una già stellata italiana e una macchina da guerra indiana - e comunque soccombere alla situazione economica? Certo che può. Accade a Polpo, il ristorante di Viviana Varese e Ritu Dalmia in via Melzo, dalle parti di Porta Venezia. Lo annuncia la chef campana in un'intervista rilasciata ad Alessandra Dal Monte di Cook: il 22 dicembre ci sarà l’ultimo servizio. Poi giù la claire. La proprietaria della licenza Dalmia, chef e imprenditrice che fa cucina italiana in India e cucina indiana in Italia (suo è Cittamani sempre a Milano) e che in patria è una sorta di leggenda gastronomica, ha deciso di vendere la licenza a un altro imprenditore con altri progetti.
Un "polpo" al cuore per la Varese, che era in affitto presso la Dalmia, e che si è dovuta adeguare. Cascherà in piedi la chef campana già stellata da ViVa a Eataly, ha già ben avviati altri progetti, il bistrot combattente Faak sempre a Milano e la cucina di Passalacqua all'interno di un albergo sul lago di Como quest'anno al quarto posto della The World's 50 Best Hotels. Però resta il senso, se non di una sconfitta, di un'occasione mancata. Che lei racconta un po’ con tristezza e un po’ con fatalismo. “Il 2025 - spiega - non è sicuramente stato un anno facile: la prima fatica è stato trovare il personale. Per i ristoranti di fascia media come Polpo è veramente dura. Va un po’ meglio nell’alta ristorazione, dove c’è un po’ più di professionalità”. Il risultato è stato che “gli incassi di Polpo sono calati del 30 per cento tra 2024 e 2025, i costi sono aumentati e i clienti diminuiti. Non riuscivamo più a riempire 80-90 coperti, c'è stato proprio meo flusso: sento tanti colleghi, è così per tutti. Noi, poi, per policy abbiamo alzato tutti gli stipendi dello staff del 50 per cento, in modo da adeguarli un po' al costo della vita”.
Polpo è, o forse dovremmo dire era, un ristorante di pesce, come fa intendere il nome, nato un paio di anni fa sostituendo Spica (un'insegna mondialista sempre gestita dal duo Varese-Damia e che aveva convinto fino a un certo punto il pubblico meneghino). Una semplice trattoria di ispirazione anni Ottanta con tocchi da tapas bar per l’aperitivo. Atmosfera lineare e pulita con discreti richiami marini, come nella palette blu e una carta dove trovi tutto quello che ti aspetti in un ristorantino pieds dans l’eau di Milano Marittima o di Viareggio: molti crudi, alcuni pesci marinati come il Ceviche di ombrina, guacamole, pomodoro, cipolla e chips di mais croccante, primi della tradizione come le Busiate con vongole lupino, calamaro affumicato, polvere di tarallo e limone o il Mezzo pacchero al ragù di polpo, e poi pesce del giorno alla brace e qualche piatto speciale che nei due anni di apertura si era fatto largo nei cuori degli appassionati di pesce a Milano, come il Lardo di calamaro di lardo e pepe e la Sogliola di Dover alla mugnaia. E i prezzi? Certo, altini per una trattoria di mare ma in fondo in linea con quello che è Milano, e non lo scopriamo certo noi, non lo scopriamo certo ora. Un’ostrica a 7 o 9 euro a seconda della tipologia, uno Scampo crudo con burro nocciola a 9,50 euro, un Gamberone rosso del mediterraneo a 12 euro al pezzo, i primi tra 21 e 24 euro, il pescato del giorno a 9,50 euro l'etto, gli altri secondi tra i 25 e i 28 euro. Insomma, a mangiare davvero e non a spizzicare scontrino medio di 70 euro, oltre naturalmente al vino. Non poco. Ma a Milano c'è chi con prezzi più alti (vedi Langosteria o a Riccione) è sempre pieno.
Quindi non è una questione di prezzi alti. O meglio non solo di prezzi alti. La questione è il rapporto tra il prezzo e il pubblico a cui ti rivolgi. Da Langosteria puoi andare tranquillamente in tripla cifra, ma si ha l'impressione di fare un'esperienza fine dining e il servizio è comunque perfetto e questo seleziona e accontenta un pubblico altospendente, che pensa a Langosteria come il top del top. Polpo invece non è top ma pop, ha uno stile che chiama un pubblico “normale”, anche giovane, per il quale 70 euro possono essere tantissimi se non fai l'esperienza della vita. E se scegli via Melzo, una strada nota per una movida piuttosto giovane e ricca di locali con gente che beve un bicchiere appoggiata alle auto parcheggiate, dall'Osteria alla Concorrenza al bar del Picchio.
Ma il problema riguarda anche, come fa notare Varese, le difficoltà della ristorazione media, che sta scomparendo proprio come la classe media a cui si rivolge. "Succede dappertutto - spiega nell'intervista a Cook - ma a Milano è ancora peggio perché la città è cara e una persona normale, con 2000-2500 euro di stipendio al mese, fa veramente fatica. Altro che cena fuori, spendere 50 euro diventa un problema. E anche chi sta un po' meglio oggi tende a fare altre scelte: magari non rinuncia al viaggio o alla palestra, ma comunque esce meno a cena". Meno problemi ha, oggi, paradossalmente il lusso che secondo Varese "funziona benissimo".
Oppure il livello popolare di Faak, "un posto di quartiere che a pranzo serve gli impiegati e durante tutto il giorno offre tante cose diverse, dall'aperitivo alla cena con i piatti condivisi". In medio stabat virtus. Ora non più.