
Fabrizio Sinisi da Barletta è uno dei migliori drammaturghi della nuova generazione. Non ancora quarantenne, ha già un lungo curriculum iniziato tra l'altro con due raccolte poetiche molto interessanti.
Adesso Sinisi si misura con il romanzo dando alle stampe Il prodigio (Mondadori, pagg. 250, euro 19,50). Un romanzo che, naturalmente, non è un romanzo stricto sensu, non esibisce intrecci, non scolpisce figure indimenticabili, non disegna spazi fisici altri, in altre parole non costruisce verità mediante castelli di illusioni e presenta situazioni narrative che in genere poco interessano ai romanzieri. Unico protagonista, e unico personaggio, di questo libro è la parola, e con la parola la voce che le è propria. Una voce che parla per dovere, per quell'ultima onestà che induce i morti - quantomeno loro - a sollevarsi per raccontare quello che i vivi cercano di nascondere.
Protagonista, o meglio voce, è un prete, don Luca: intellettuale fine, ottimo conferenziere, poca fede, ha un'amante che non lo ama, l'insopportabile Marta, che però lui ama. Così va il mondo? Be', andrebbe così se un bel giorno in cielo non comparisse una strana figura, forse un fenomeno atmosferico, una strana disposizione delle nuvole, insomma fatto sta che quella che compare è una specie di immensa faccia, tipo emoji, che - man mano che la gente se ne accorge - comincia a produrre nel mondo una serie crescente di strani fenomeni. Niente di che stupirsi: la gente guarda il cielo più del solito, a causa di quello strano prodigio, e a guardare troppo il cielo può capitare che si riveli il vuoto totale della nostra vita, delle nostre scelte, azioni, propositi.
Così un certo normale disordine, che appare modesto nella scarna biografia di don Luca, si estende fino a farsi fenomeno generale, fino all'esplosione e diventa un grande disordine.
Ma è la lingua di Sinisi a rivelare, più che gli eventi narrati, la direzione dell'opera. Il prodigio è infatti, prima che un romanzo, il più bel testo teatrale dello scrittore barlettano, tessuto secondo il modo del "romanzo teatrante", o teatrato, che troviamo nei due massimi drammaturghi del XX secolo: l'incipit, con l'apparire di quella strana faccia in mezzo al cielo, ricalca infatti un ben collaudato metodo pirandelliano (quello per esempio di Uno nessuno e centomila), per allontanarsi dai toni grotteschi del grande siculo in direzione di immagini più allucinatorie e fosforescenti sul modo del Testori de Gli angeli dello sterminio. Il fatto che don Luca si definisca, nei primi capitoli, "novecentesco" indica la collocazione che Sinisi intende suggerire del proprio lavoro.
I segnali non si fermano qui. Don Luca ha un passato teatrale (è lì che conosce Marta), e il suo maestro si chiama Carmelo Tozzi, nome che richiama due tra i maggiori registi teatrali dei nostri anni, Federico Tiezzi e Carmelo Rifici, che Sinisi ben conosce. Ma, soprattutto, teatrale è il modo di parlare di politica, perché il teatro è politica (questo non lo sanno tutti) così come la politica è teatro (e questo invece lo sanno tutti). La lingua del teatro, la sua voce, è una voce politica, che s'impregna più e prima delle altre del destino, dell'odore e del fallimento della politica.
Perché anche il teatro è così: destino e fallimento. Nello spazio vuoto del teatro (e del mondo) qualcosa si rivela - un segno, un simbolo, come quel grande emoji - e intorno ad esso tutto monta, si gonfia, si complica fino alla tragedia, fino alla guerra, fino a quando le vittime designate (e qui ci sono, in una delle scene più spettacolari del libro) consumeranno il sacrificio.
È così che il teatro sviluppa le sue metafore politiche.
Concluso il sacrificio, nuovamente lo spazio si svuota, regni e castelli e discoteche e movimenti di popoli svaniscono e rimangono le nude tavole di sempre. Il teatro torna a essere un edificio come tanti.
Con un'aggiunta importante, che differenzia Il prodigio dai testoriani Angeli. Se in Testori rimane il sapore della desolazione, qui due elementi segnano un passaggio nuovo.
Il primo è che qui la vera distruzione avviene non nel caos ma nel silenzio che segue. Il male non sta nemmeno nell'esplosione di una sorta di guerra civile, ma nella normalizzazione e nella cancellazione della memoria che ne segue: ciò che è accaduto non sarà ricordato, se ne perderanno le tracce. La tragedia è una tragedia muta.
Il secondo è che c'è tuttavia per l'uomo una possibilità in più. Don Luca è precipitato nel caos a tal punto che ci si dimentica a lungo (se lo dimentica lui stesso) che è un prete.
Ma alla fine qualcosa resta, una specie di perdono: è il suo stesso vescovo a ricordarglielo.A meno che, come si accennava, don Luca non sia semplicemente morto anche lui nella guerra generale, e con la pietà dei morti sia tornato da noi, nottetempo, per precisare cose che noi abbiamo preferito dimenticare.