Dio è liberale, san Francesco no. Meglio quel mercante di suo padre...

Il grande economista sostenne che il pauperismo dei seguaci improvvisati del santo era una sciagura. A differenza della ricchezza

Dio è liberale, san Francesco no. Meglio quel mercante di suo padre...

Ogni 4 ottobre, l'Italia si veste di retorica francescana. Quest'anno le celebrazioni hanno un peso particolare perché si avvicinano gli ottocento anni dalla morte di san Francesco, avvenuta nel 1226. Nel frattempo il 4 ottobre è appena tornata a essere festa nazionale a partire, appunto, dall'anno prossimo. Mai come in questi giorni le autorità civili e religiose onorano il patrono d'Italia: discorsi solenni, inni alla povertà, invocazioni di pace universale. Ed è proprio davanti a questa coreografia che Antonio Martino, economista liberale e libertario, si lasciò prendere dall'insofferenza. Nicola Porro chiese a Martino cosa accadde. La risposta è nel libro di Porro intitolato Il Padreterno è liberale (Piemme).

Martino: "Feci un articolo su Il Giornale che fece impazzire Montanelli; mi riservò tutta la terza pagina del quotidiano. Argomentai che i poveri erano stati aiutati molto più efficacemente dal padre di san Francesco che non dal figlio. Perché il padre dava loro un lavoro. Mentre san Francesco predicava la povertà. Ma nella povertà non c'è nessun merito. Chiunque può diventare povero, se lo vuole. Non è difficile. Diventare ricco è difficile". Ma chi era il padre? Si chiamava Pietro di Bernardone. Dante Alighieri lo cita nella Divina Commedia, ma non è che siano rimaste molte tracce scritte sulla sua vita. Si sa che era un ricco commerciante di stoffe attivo nell'Umbria settentrionale, nel Ducato di Spoleto, tra il XII e il XIII secolo. Sposò una nobile provenzale, Pica de Bourlemont, ed ebbe due figli, Francesco e Angelo. Francesco si convertì quando aveva circa 20 anni, tra il 1202 e il 1204. Si spogliò materialmente di tutti i suoi beni, abiti compresi, per darsi a una vita all'insegna della carità. A un occhio superficiale e anche un po' malevolo, le affermazioni di Martino potrebbero sembrare ingenerose o ispirate all'avidità. Niente di più sbagliato. Era ovviamente una provocazione. Antonio Martino guardava a san Francesco con lo stesso sguardo con cui scrutava lo Stato: diffidente, ironico, persino ostile. Non ignorava la potenza spirituale del Poverello d'Assisi ma non apprezzava la retorica dei sedicenti seguaci. Nei fedeli un giorno all'anno vedeva il prototipo di quell'ideologia pauperista che, nella storia italiana, ha spesso fornito la giustificazione morale alle più insidiose forme di collettivismo.

Martino non aveva simpatia per il culto dell'indigenza. Da economista, sapeva che la ricchezza non è peccato ma condizione di libertà. Di qui la sua insofferenza verso un san Francesco trasformato in bandiera della rinuncia ai beni, eretto a simbolo di una "economia francescana" che, a suo giudizio, significava soltanto sottosviluppo garantito e ascetismo imposto. Nel suo linguaggio, chiaro e senza concessioni, spiegava che l'uomo non vive di carestia volontaria: vive di scambio, di mercato, di invenzione, di capitale.

Non che Martino non distinguesse tra il santo medievale e le manipolazioni moderne: il Francesco mistico, tutto proteso all'imitazione di Cristo, non era il suo bersaglio. Ciò che Martino detestava era il Francesco canonizzato dal progressismo cattolico e laico, presentato come il santo dell'egualitarismo universale, della decrescita felice, dell'antimercato. In altre parole, il santo trasformato in mascotte ideologica, utile a giustificare la colpa verso il denaro e la diffidenza verso la libertà economica.

Martino, figlio della tradizione liberale anglosassone, contrapponeva a questa caricatura un'altra evidenza: senza ricchezza non c'è carità, senza proprietà non c'è dono, senza prosperità non c'è libertà. Francesco poteva ben rinunciare a tutto: lo faceva da uomo libero, non da suddito di una pianificazione economica. Ma la Chiesa e ancor più la cultura politica italiana hanno finito per vedere in quella rinuncia un modello universale, un'etica da imporre a tutti.

E qui il liberale Martino alzava la voce: trasformare una scelta personale in legge morale è la via maestra al totalitarismo.

Così Martino ci consegna una lezione acuta. Dietro la tonaca del poverello, ammoniva, spesso si nasconde il vizio antico dell'Italia: amare la povertà degli altri, per poterla amministrare con la scusa della virtù.

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