Con Ellis le "schegge" diventano letteratura

L'autore parla della libertà e delle dipendenze degli anni '80. E delle nostre (vitali) ossessioni

Bret Easton Ellis

Ho letto molte cose sul nuovo romanzo di Bret Easton Ellis, tutte scritte da aspiranti critici che ormai sono aspiranti sociologi, come se di sociologi non ne avessimo già abbastanza. «Generazionale» è la parola più usata, ma anche «romanzo di formazione», e tante formule prese dal cassetto degli attrezzi di chi recensisce opere ma potrebbe recensire pere, usando stereotipi. In ogni caso il genio di Ellis nacque, tanto per ricordare, nel gruppo che Fernanda Pivano definì post-minimalisti, tra cui c'erano David Leavitt, Jay McInerney, Tama Janowitz e altri, ma come del Gruppo 63 è rimasto solo Arbasino (e Eco, volendo), di quel gruppo lì è rimasto Ellis, e Ellis è tornato, dopo una pausa romanzesca di oltre dieci anni, e con un'opera che è strepitosa.

No, gli anni Ottanta in cui si muove il protagonista, che si chiama non a caso Bret Easton Ellis, non sono generazionali, sono l'inizio della modernità che ancora viviamo, o talvolta rimpiangiamo, perché tutti i sogni sono iniziati lì, e sono anche l'espressione della libertà edonistica occidentale. Da sempre criticata dai lettori di estrema sinistra e di estrema destra, dai nostalgici dei ventenni e dai sessantottini di Lidia Ravera e Nanni Balestrini. È per questo che Ellis racconta di nuovo quegli anni, l'atmosfera è quella di Meno di zero, ma vista da un sé stesso quasi sessantanne. Come un ultimo nastro di Krapp (eccezionale personaggio di Beckett che si registra ogni giorno per non perdere mai la propria identità, e riascoltando la propria voce da vecchio non si riconosce; qui Ellis si riconosce, ma si riscrive).

Nonostante il bellissimo saggio Bianco, contro il politicamente corretto (e in effetti Ellis lo è dall'inizio alla fine), è altrettanto tradizionalmente scorretto, vista la libertà, l'assoluta normalità, con cui racconta incontri sessuali di ogni tipo, avendo rapporti con uomini e con donne (ma prevalentemente con i primi, essendo più o meno gay), senza che nessuno se ne faccia un problema, così come dell'uso di farmaci, i tanto amati Valium e Xanax, tanto alcol, cocaina, e droghe le più svariate. Infinite le citazioni di ciò che si ascoltava e si vedeva all'epoca, anche lì erano droghe per le orecchie portate dietro nei walkman, dai Queen ai Duran Duran, mentre al cinema usciva, per esempio, Shining, e Bret si precipitava a vederlo perché è proprio leggendo Stephen King che decise di diventare uno scrittore.

Nel romanzo di cui sto scrivendo, Le schegge (Einaudi), siamo a Los Angeles, nell'autunno del 1981, ma non è un'autobiografia, sebbene le parti autobiografiche siano molte: è un grande romanzo erotico, è un poliziesco, è un horror, è un'opera sull'ossessione, sulle ossessioni che ci fanno diventare quello che siamo. Nella vita dei giovani ricchi del college, tra party in piscina, automobili regalate da papà e vestiti di lusso (di cui sono sempre citate ossessivamente le marche, vi ricorda qualcosa?), amori, gelosie, c'è l'autore che crea un mondo che condensa ogni sua precedente opera, riattraversata come narratore e protagonista, con un senso di inquietudine crescente.

Anche perché tra questi adolescenti si aggira un serial killer, chiamato dai media «Il Pescatore a Strascico», che uccide prima gli animali domestici delle proprie vittime, e queste ultime le fa ritrovare dopo mesi in stati raccapriccianti (una ha la vagina ripiena dei pesci che aveva nel suo acquario). Indiziato principale di Bret è il nuovo arrivato Robert Mallory, da cui è terrorizzato e attratto al tempo stesso, e che diventerà il buco nero di tutta la narrazione. L'ombra lunga di Patrick Bateman, che abbiamo ritrovato in altre opere di Ellis, da Glamorama a Lunar Park, e tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo, perché uno scrittore vive dentro quello che scrive. Cosa è vero, cosa è falso? È la domanda che si pone più spesso il protagonista, e vale per un amico che potrebbe essere un serial killer, un amante che forse lo ama forse no, o qualsiasi evento che potrebbe essere casuale o la causa di qualcosa, anche di suicidi di amici devastati che non mancheranno. A differenza di Meno di zero, scritto a caldo da un giovane Ellis, qui c'è più nostalgia, una nebbia emotiva e disincantata di quando i sogni erano ancora una possibilità di felicità futura.

È un romanzo, tradotto magistralmente da uno dei nostri più importanti scrittori, Giuseppe Culicchia (il primo a ritradurre American Psycho quando uscì in Italia per Bompiani e porre fine allo scempio, traducendoli sempre lui), che avrebbe voluto scrivere in quegli anni, ci dice il narratore (siamo sempre in una magistrale fiction, non dimenticate), senza avere mai il coraggio di scriverlo, ma che lo ha tormentato per una vita.

In realtà Ellis ha messo in scena un grande romanzo sulle ossessioni. Che a volte sono belle, a volte brutte, sono schegge rimaste conficcate nel nostro cervello, ma senza le ossessioni, senza queste schegge, la vita sarebbe orrendamente noiosa.

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