
Come d'abitudine, il nuovo libro di Aldo Cazzullo è in testa alle classifiche dei best seller. Finirà anche quest'anno come il 2024, con un suo titolo a risultare il più acquistato nelle librerie e sulle piattaforme internet di questo Paese. Dodici mesi fa profetizzai, ed eravamo solo all'inizio della rincorsa, che Il Dio dei nostri padri. Il racconto della Bibbia che pure è abbastanza noto e il cui finale non sorprende sarebbe salito in cima al podio. Stavolta l'alloro toccherà allo scrittore (e giornalista) per Francesco, il primo italiano (Harper Collins). Le librerie traboccano di opere dedicate al Poverello d'Assisi, in vista delle celebrazioni dell'ottavo centenario. Perché vince Cazzullo? Si è messo in corsa anche Alessandro Barbero, lo storico professionista, divulgatore trascinante ed erudito, che ha usato per il suo lavoro un titolo definitivo: San Francesco (Laterza). Come dire: chiusa lì, quello che doveva esser conosciuto e stampato è qui; questo è il sole della scienza, e gli altri solo satelliti un po' balenghi. Barbero scrive come un professore che si diverte a sconfessare qualsiasi lettura ne abbiano dato santi, discepoli, atei; poi è arrivato lui con l'aria di chi insegna sorridendo a non credere a niente e nessuno, salvo che a Barbero e al suo non credere un tubo. Tutto molto gustoso. Risultato? Il lettore, appena chiude il volume, si scuote la cipria dal volto e resta come prima.
Cazzullo invece è un grande giornalista, cioè un vero scrittore, come predilesse venir considerata Oriana Fallaci. Non spiega la realtà, ce la apre davanti, fin nelle sue viscere, e poi risalendo su, ce ne regala colori e odori. C'imprime qualcosa di onesto nella mente, perché prima è accaduto a lui. Non è tecnica: è talento che si arma di esercizio.
Il volume cazzulliano non è l'offerta di un santino. È un racconto vivo, umano, carico di dubbi sul soprannaturale, ma constata come ascoltandolo alla Porziuncola, sulla Verna, pensandolo travolto dalle stimmate d'amore e dolore (ma saranno davvero stimmate del Crocifisso? Si chiede), e il poverello, uscendo dagli affreschi di Giotto nella basilica gli avesse parlato come a un amico. Cazzullo non scrive per analizzare, ma ha gli occhi e la penna che funzionano come apriscatole del mondo. Ogni suo libro è un taglio nella latta dell'abitudine. Dentro non ci sono solo fatti, ma la sorpresa che essi generano in chi li guarda.
Nel libro, il giornalista adotta ad un certo punto il contrario del plurale maiestatis. È un noi che gli serve a nascondersi nel saio di Francesco. Una specie di "plurale humilitatis", non per vezzo ma per scomparire dietro ciò che vede, troppo grande per un "io" che davanti alla grandezza del figlio di Pietro di Bernardone, si capisce che vorrebbe essere uno di quei frati della prima ora, non figure da favoletta, ma uomini pieni di difetti ma trasformati. Francesco dice che si può cambiare, ciascuno può, seguendo come lui il Vangelo, senza aggiungerci nulla, non predica dal pulpito bensì si getta nella polvere. Un corpo fragile, e un vigore eccezionale.
Chi non ha un'idea preconfezionata su Francesco? È la figurina più sfruttata dell'album spirituale occidentale. Cazzullo la prende, la lava dal sentimentalismo e la restituisce con le rughe e la risata. Incontra uomini e donne che si dicono cambiati da lui. E capisce che non è una reliquia, ma un contemporaneo. Il "primo italiano", sì, ma anche l'unico italiano vivo, permanente. È quello che noi vorremmo essere: liberi, dolci e tremendi, capaci di dire "sorella morte" senza tremare.
Il precedente libro di Cazzullo era dedicato al padre perduto, un'esperienza che abbiamo fatto in tanti. La morte di una persona cara ci costringe a un viaggio oltre la morte, però in un prima della morte, in quello che ci ha insegnato con il suo esempio chi ci ha generato. Questo è invece uno sguardo alla morte, la livida morte è un mistero che possa essere invece guardata come una cara, amabile sorella. Il segreto per questo è sposare la povertà. Non possedere nulla, perfino sé stessi. La povertà di Francesco non è miseria, ma libertà. Non possedere nulla, e così possedere il mondo. Non essere padroni di niente: ecco la sola forma di ricchezza che non teme crolli in borsa. Persino la malattia, le persecuzioni, sono occasioni di letizia. Un pazzo? Un uomo felice. "Francesco subisce sorridendo (percosse, insulti, torti, incomprensioni, fallimenti). La sua risposta è l'amore". Una frase così, estrapolata dal libro, uno sarebbe portata a ritenerla un pizzino da baci Perugina, invece è la verità che ha trasfigurato lui e migliaia, milioni di donne e uomini. Specialmente gli italiani.
Cazzullo, da cronista che fiuta l'anima, non si ferma ai fioretti da catechismo. Mostra un uomo ironico, autoironico, a volte ruvido. Uno che sapeva pungere la cattiveria e poi chiedere scusa, asciugare le lacrime a chi aveva ferito. "Perfetta letizia", la chiamava. Umiltà vera, non teatralità.
Il giornalista non nasconde il suo fastidio per l'oscurantismo, quello che anche Francesco detestava. Se la prende, senza infingimenti, con San Bonaventura da Bagnoregio, il teologo prediletto da Benedetto XVI, colpevole di aver imposto una "versione ufficiale" della vita di Francesco, la legenda aurea, e di aver ordinato la distruzione di tutti i testi che ne raccontavano un volto diverso. È l'eterna tentazione di chi crede che la verità debba essere sorvegliata come una caserma. Cazzullo non sopporta i custodi che soffocano la memoria dei semplici. E in questo, somiglia al suo Francesco, che non obbediva se non a Dio (e al Papa, anche quando il Papa non capiva, però alla fine ne era conquistato).
Il risultato è un ritratto spiazzante: Francesco non come santo addomesticato, ma come rivoluzionario disarmato. Uno che ha versato solo il proprio sangue, attraverso le stimmate che Cazzullo non discute ma guarda con prudenza: non nega, non le dichiara impossibili. Spera che siano vere, ma non lo dice, gli piacerebbe metterci dentro il dito, e comunica una trepidazione che piacerà a chiunque ritenga la questione religiosa un fatto mai chiuso. Da ateo zoppicante ma che deve tanto ai preti, quale son io, so riconoscere il solletico del dubbio.
Nel suo racconto, il miracolo non è l'estasi, ma l'uomo. Il povero d'Assisi, per Cazzullo, dimostra che è possibile nascere nuovi, cambiare pelle, essere migliori. E che chi non possiede nulla non può essere comprato. Non è solo un santo: è un modello politico, morale, perfino economico. Un rivoluzionario che fondò un ordine senza eserciti e una Chiesa senza potere.
In fondo, Cazzullo scrive un elogio della libertà. Quella che nasce dalla spoliazione, non dai bonus. Quella che i moderni scambiano per miseria, che è davvero orrenda, mentre la vera povertà è la condizione della gioia. Francesco non si ribella al mondo: lo cambia vivendolo fino in fondo, senza armature. Ecco perché, mentre Barbero compone un trattato da cattedra, Cazzullo scrive un libro che profuma di pelle e di strada. Il primo ci spiega un santo; il secondo ce lo restituisce.
Nel finale, Francesco, il primo italiano si legge come un testamento laico: un invito a vivere tenendo accesa una luce nella notte, senza possedere, senza mentire, senza rassegnarsi. È un libro che non consola: scuote. Ma non scuote e basta. Verrebbe voglia di trovarne uno che baci le nostre piaghe da quei lebbrosi che siamo, facendoci sperimentare "un'indicibile letizia e un'immensa dolcezza".
Francesco non è un ricordo, ma una strana presenza della speranza. (E Chiara? Cossiga mi disse di sapere con sicurezza, avendo letto certe carte, che era stata davvero fidanzata di Francesco, altro che spiritualismo. Ma qui, opportunamente, mi fermo).