Letteratura

La Germania in fiamme vista con gli occhi (liberi e spregiudicati) di una "russa bianca"

Dal 1940 al 1945 l'esule aristocratica Marie Vassiltchikov raccontò la vita nella capitale

La Germania in fiamme vista con gli occhi (liberi e spregiudicati) di una "russa bianca"

Nel settembre del 1939, quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, la ventiduenne Marie Vassiltchikov, Missie per gli amici, era in vacanza in Germania, nella Slesia precisamente, ospite di una amica della madre, la contessa Olga Pückler. I Vassiltchikov facevano parte di quell'aristocrazia russa, i cosiddetti «russi bianchi», scappata dalla Rivoluzione d'Ottobre e sparpagliatasi, con alterna fortuna, fra Europa e Medio Oriente. Educata in Francia, Missie era poi cresciuta in Lituania, repubblica indipendente all'indomani della Grande guerra, dove la sua famiglia aveva conservato delle proprietà terriere. In virtù del patto Molotov-Ribbentrop, l'invasione nazista della Polonia mise anche fine all'indipendenza della Lituania, considerata da Mosca nient'altro che un territorio russo da riannettere, e per il principe Vassiltchikov, sua moglie e il loro figlio più piccolo, l'inizio di nuove difficoltà. Restare in Lituania significava, nel migliore dei casi, l'arresto, raggiungere Missie in Germania una scelta obbligata, ma rischiosa: erano esuli e si ritrovavano apolidi, erano anticomunisti, ma cercavano rifugio in una nazione che con la Russia comunista aveva appena firmato un'alleanza...

Fu proprio la giovane Missie a trovare la soluzione. Conosceva le lingue, aveva amicizie nel mondo diplomatico (ancora in Lituania aveva lavorato per la legazione inglese), il suo status aristocratico le consentiva la frequentazione di quella nobiltà tedesca terriera e militare convivente, ma non sempre connivente con il nazismo, ancora utilissima per le relazioni sociali. In breve, Missie riuscì a farsi assumere prima alla radio di Stato, poi al ministero degli Esteri, nella Sezione Informazioni.

I miei giorni a Berlino (Rizzoli, pagg. 486, euro 20, traduzione di Annita Biasi Conte) è il diario (The Berlin Diaries è il titolo dell'edizione originale inglese uscita nel 1985), che Marie, «Missie», Vassiltchikov tenne pressoché ininterrottamente dal 1940 al 1945, testimonianza di prima mano di che cosa fosse la quotidianità tedesca in una grande città, meglio, in quella che era la grande città tedesca per eccellenza, per tutto l'arco di un conflitto sempre più distruttivo e al termine del quale la Germania si ritroverà a essere un cumulo di macerie. Una testimonianza privilegiata, se si vuole, visti i rapporti di chi la scriveva, ma non per questo meno significativa rispetto ai dolori e alle sofferenze delle classi medie e popolari tedesche. La giovinezza di Missie, ovvero la sua voglia di vivere, e il suo essere comunque estranea rispetto a quel popolo e a quel regime, esule e straniera in terra altrui, le consentono uno sguardo più libero, al di sopra di tutto e di tutti, spregiudicato, per molti versi, e che fa il fascino di questo libro.

Si prenda, a puro titolo di esempio, questo brano del novembre 1943, quando Berlino subisce il primo massiccio attacco aereo: «Il mattino dopo la prima incursione avevo un appuntamento per scegliere un cappello in un negozietto dei dintorni. Le case tutt'intorno erano bruciate, ma io volevo assolutamente quel cappello e così sono andata fin là e ho suonato il campanello e, meraviglia delle meraviglie, mi sono trovata davanti una modista sorridente: Durchlaucht kommen anprobieren! (Sua Altezza può venire dentro a provarlo!'). E così ho fatto, ma poiché indossavo dei pantaloni tutti infangati, era difficile giudicarne l'effetto»...

Il curatore del libro, George Vassiltchikov, ovvero il fratello minore di Missie, sottolinea, per quello che riguarda il fallito attentato a Hitler del luglio del '44, come questo sia «l'unico diario di una testimone oculare di cui si conosca l'esistenza». Missie conosceva infatti, direttamente o per interposta persona, molti membri antinazisti di quella congiura, nonché le loro intenzioni, e fu testimone del regime di terrore che si scatenò in seguito. In proposito, vale la pena riflettere su quanto da lei scritto allora: «Non riusciamo a capire l'atteggiamento della radio alleata. Continuano a elencare i nomi di coloro che, essi dichiarano, hanno preso parte al complotto. E anche di quelli che non sono ancora stati ufficialmente implicati! Ricordo di aver avvertito Adam Trott, a suo tempo, che sarebbe successo proprio questo. Ma Adam continuava a sperare che gli Alleati avrebbero sostenuto la Germania decente e io continuavo a dire che al punto in cui erano arrivati non volevano che distruggere la Germania, qualunque Germania, e che non avrebbero esitato a eliminare i buoni tedeschi insieme a quelli cattivi». In sostanza, come spiega bene George Vassiltchikov, «la guerra psicologica degli inglesi aiutò de facto la Gestapo a decimare la Resistenza antinazista quindi, in una certa misura, a prolungare la guerra». Era una politica di annientamento riassumibile nel cinismo di Churchill all'indomani dell'attentato di von Stauffenberg: «Più tedeschi si ammazzano fra loro, meglio è»... È lo stesso cinismo con cui gli alleati, nonostante le promesse fatte, consegneranno a Stalin, ovvero alla morte, l'esercito russo di Liberazione del generale Vlasov e i cosacchi del generale von Pannwitz.

In I miei giorni a Berlino, spiccano anche alcune figure italiane. Una è Giorgio Cini. «È venuto fino a Berlino per cercare di indurre le SS a liberare il padre, il vecchio conte Vittorio Cini (...). È molto cambiato da quando l'ho visto l'ultima volta, poco prima della guerra. Ha l'aria di un uomo disperatamente preoccupato. Adora suo padre e per molti mesi non ha saputo dove fosse, neppure se fosse vivo. Adesso stava aspettando un pezzo grosso della Gestapo. Chissà? Con quella determinazione e quella forza di volontà - e il denaro -potrebbe farcela». Un'altra è Filippo Anfuso. «È uno dei pochi diplomatici di grado elevato che sono rimasti fedeli a Mussolini. Molti topi hanno abbandonato la nave che affondava. Ciò che Anfuso sta facendo forse non è saggio, ma lo rispetto per questo. È un uomo intelligente, ma il suo lavoro è molto difficile, soprattutto perché non ha un'autentica simpatia per i tedeschi».

Rispetto al tartufismo censorio di chi pontifica ex post su come ci si sarebbe dovuti eticamente comportare in un regime totalitario, I miei giorni a Berlino ha la concretezza della realtà. Missie capisce come si possa combattere per la Germania senza per questo essere nazisti, si rende conto che i bombardamenti a tappeto sulle popolazioni civili rinsaldano i legami anziché affievolirli, è ammirata dalla capacità di resistere e di reagire, non si sente in colpa se riesce a ritagliarsi piccole oasi di serenità in mezzo alle tragedie che la circondano, perché è poi da lì che si deve attingere per continuare ad andare avanti.

Da una Berlino distrutta a una Vienna dalla quale dovrà poi fuggire quando l'Armata rossa è oramai alle porte della città, fra malattie, lutti, pericoli, fame, crocerossina in un ospedale della Luftwaffe, nella capitale austriaca Missie celebrerà il suo ventottesimo compleanno in compagnia di due amici e di una bottiglia di champagne... Nel maggio successivo, la fine della guerra la troverà ricoverata in un altro ospedale, a Gründen, nella Baviera appena arresasi alla III Armata del generale Patton. Un anno dopo sposerà, sempre nel mese del suo compleanno, gennaio, un ufficiale americano nella chiesa ortodossa di Kitzbühel. Avrà per testimoni, e in uniforme, i nobili tedeschi von Herwath e Metternich e il francese conte de la Brosse.

«Era una cerimonia che univa persone di quattro nazioni che, fino a poco tempo prima, avevano combattuto una feroce guerra l'una contro l'altra».

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