Letteratura

"Gianni" Ferrari, l'uomo che voleva essere Calasso

Era il "Signore dei libri". Ora li scrive. Ecco la sua "personale" storia dell'editoria

"Gianni" Ferrari, l'uomo che voleva essere Calasso

L'uomo che voleva essere Calasso si chiama Gian Arturo Ferrari, ma gli amici lo chiamano Gianni. Tutti gli altri «il Professore», e non si è mai capito se per prenderlo in giro o per deferenza.

Dopo il liceo al Collegio Ghislieri e la laurea in Lettere classiche all'Università di Pavia tentò la carriera accademica - scuola di Mario Vegetti, téchne, Galeno, i presocratici, l'«io collerico»... insegnando Storia del pensiero scientifico. Ma poi abbandonò tutto per l'amore dei libri. Voleva averne tanti, voleva averli tutti, voleva rubarli, deciderli, pubblicarli, venderli, vincere premi e farli fallire. Ci è riuscito, in ogni cosa.

Quando era potente lo chiamavano il Signore dei libri. Adesso che lo è un po' meno, Gian Arturo. Il cursus honorum è sontuoso: braccio destro di Paolo Boringhieri già negli anni Settanta, editor della Saggistica Mondadori nel 1984, direttore dei Libri Rizzoli nel 1986, rientrato in Mondadori nel 1988 come direttore dei Libri e poi dal 1997 al 2009 come direttore generale, perfino una parentesi (non così felice in verità) come presidente del Centro per il libro e la lettura dal 2010 al 2014 e ancora un ritorno a Segrate, tra il 2015 il 2018, da superconsulente di Mondadori Libri. Anni di successi, di business, di marketing, di saloni e di salotti. Quando andava a Parigi in missione editoriale e scendeva all'Hotel Crillon, e non mancava di fartelo sapere. Quando alla Buchmesse rilanciava all'asta dei diritti come a un tavolo di poker, tanto i soldi non erano suoi. Quando ti incrociava a un festival o a un premio, e ti metteva la mano sulla spalla «Stai tranquillo, ci penso io», e poi non pensava a un cazzo, se non a quello che interessava a lui. Quando chiacchierava con Giorgio Bassani, quando imparava da Carlo Fruttero, quando citava l'amato Citati...

Comunque, Gian Arturo Ferrari la storia del libri e dell'editoria la conosce così bene che a suo tempo, nel 2014, scrisse un libro intitolato Libro (Bollati Boringhieri), e oggi ci dà una splendida Storia confidenziale dell'editoria italiana (Marsilio) che è due cose insieme. Per metà racconta l'avventura novecentesca degli Arnoldo Mondadori e gli Angelo Rizzoli (i dioscuri dell'editoria italiana, gemelli identici e diversissimi), i Valentino Bompiani, la dinastia manualistica degli Hoepli (il successo dei libri «utili»), e poi l'elogio di Livio Garzanti (carattere difficile ma perseveranza formidabile, si pensi a Gadda...), le pagine sullo Struzzo e il cielo stellato (cioè il corpo a corpo fra Giulio Einaudi e Boringhieri), le pagine invidiosette sull'Adelphi, quelle un po' troppo «partecipate» su Giangiacomo Feltrinelli, quelle sugli editori «medi» più originali (Sellerio) e imprevedibili (e/o). E per metà raccoglie ricordi, aneddoti (la sua vita, le opere e i miracoli in Mondadori), riflessioni dell'autore (utili quelle sulla necessità di trovare un equilibrio fra i comandamenti di Dio, cioè le esigenze culturali, e la schiavitù di Mammona, cioè le leggi economiche), massime (frase tormentone: «L'editoria è uno strano mestiere perché usa lo spirito per fare i soldi e i soldi per fare lo spirito») e «dietro le quinte» (cioè le miserie dell'editoria reale), tra autobiografia e autocelebrazione. «Io ho fatto...», «Io intuii...». «Io scoprii...». La memoria del libro e le memorie del Signore dei libri.

Nascita da dimenticare a Gallarate, città di ciminiere, tessiture e provincialismo, infanzia nella terra d'origine, collina emiliana, di cui ha mantenuto il modo di esprimersi con i suoi autori («Abbiamo trovato il manzo, mettiamolo all'ingrasso»), una cultura vaga e salottiera mediamente superiore alla media di chi lavora nell'editoria, memoria eccellente, fantasia mediocre, una vanitas che non si è sopita negli anni a febbraio saranno 79, Auguri è come tutti gli intellettuali cinico, narciso e autoriferito (che poi è la sua simpatia). Gian Arturo Ferrari è una di quelle persone che quando ti incontrano passano la prima mezz'ora a parlarti di loro, e poi ti chiedono: «Ma adesso dimmi di te. Hai letto il mio libro?». Purtroppo sì.

Ritiratosi dalle fabbriche del libro, Gian Arturo Ferrari si è messo a scriverli. Uomo che ha sempre avuto un fiuto per quelli degli altri, tende ad avere meno senso critico per i propri. Quando nel 2020 pubblicò Ragazzo italiano, il suo primo romanzo - con Feltrinelli, in un momento di rivalsa con la Mondadori e di reciproco innamoramento intellettuale con Carlo Feltrinelli, chissà perché poi... decise persino di partecipare allo Strega. Di più. Credendo ancora ai premi (e forse è rimasto uno degli ultimi, oggi che per sapere chi ha vinto l'anno scorso lo Strega o il Campiello lo devi cercare su Google), si illuse di vincerlo. Lottando disperatamente. E così, lui che si è sempre gloriato di aver trasformato in una scienza il pacchetto di voti, telefonò personalmente a tutti i giurati suoi vecchi amici, ai quali quando era il kingmaker dell'editoria aveva fatto mille favori e ora ne chiedeva uno in cambio. «Pronto? Ciao, sono Gianni. Come stai? Hai visto il mio romanzo?». Arrivò penultimo della cinquina.

Cinquantamila libri posseduti (ma forse è un'esagerazione), quarant'anni da top player nel mondo di carta, tre grandi ossessioni (i libri, il potere e il potere di fare i libri), due mogli la prima una giornalista femminista, la seconda una agit prop di Beppe Sala - e da sempre un primo della classe. La sua vita come un Bildungsroman tra l'Emilia contadina, la Milano del boom e un'Italia da pubblicare.

Amato da tanti e mal sopportato da troppi, gessati da gangster, pacche sulle spalle, physique du rôle del boss (già in Rizzoli ti accoglieva calcolatrice in mano e piedi sulla scrivania), una vita a riscattare l'infanzia fragile e triste dalla romanzesca casa impiegatizia di famiglia a Galaràa al leggendario attico milanese firmato da Giuseppe Terragni in cima a Casa Rustici, su corso Sempione Gian Arturo Ferrari, tra l'alto e il basso, ha fatto il bello e il brutto dell'editoria italiana. Chi lo difende gli riconosce il merito di aver tenuto insieme le esigenze culturali e quelle commerciali, i classici e il mercato, l'intellettualità e l'industria; e non è poco. Chi lo critica gli addossa la responsabilità della «deriva mercantilistica» di Mondadori (che poi ha contagiato tutto il settore), di aver svenduto la cultura per il soldo e di aver inventato il libroide, quella cosa che uno è convinto sia un libro e invece non lo è. Autobiografie dei vip, ricettari, saghe faraoniche e varia amenità.

Manager di fronte agli intellettuali (agli scrittori sbatteva in faccia numeri e tecniche gestionali: «Questa è un'industria che deve vendere!») e intellettuale davanti ai manager (agli «editoriali» parlava sempre con linguaggio aulico e citazioni letterarie, forse per impressionarli), Gian Arturo Ferrari ha - indubbiamente - decine di virtù. Fiuto, furbizia, cultura, intelligenza, sorriso sornione, battuta pronta, joie de vivre e un certo snobismo. E qualche vezzo. Il più scusabile dei quali è la tendenza ad attribuirsi i meriti degli altri. Quando, nel 2003, l'insostituibile editor Stefano Magagnoli portò in Comitato di lettura Il codice da Vinci di Dan Brown, Gianni - sia detto confidenzialmente - sbottò: «Che cosa volete che venda in Italia un libro che parla male del Vaticano...». Naturalmente divenne un bestseller.

Il suo.

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