
A Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha vissuto mille giorni di prudenza. Se si dovesse individuare un solo tratto caratteriale della presidente del Consiglio non potrebbe che essere questo, del resto: una cautela diffidente spinta fin quasi al parossismo. Finora la prudenza ha servito bene Meloni e le ha consentito di servire bene il Paese. Ma anche la prudenza può essere un limite.
È stata la prudenza a portare la leader di Fratelli d'Italia a Palazzo Chigi, innanzitutto. Nella legislatura 2018-2022, mentre le altre forze politiche saltellavano allegramente da una coalizione all'altra, Meloni è rimasta ostinatamente ferma al proprio posto. Questo le ha consentito di trarre beneficio dal suicidio politico dei suoi concorrenti, interni ed esterni alla destra, e di presentarsi come l'opzione più affidabile a un'opinione pubblica esausta e sconcertata dai peggiori esempi di trasformismo mai visti nel Paese in cui è nata la parola «trasformismo». Questo le ha permesso inoltre di stabilizzare il quadro politico italiano e conseguire un primo risultato: durare almeno mille giorni, appunto.
La prudenza ha poi spinto Meloni, appena salita al governo, ad affrontare con serietà il problema dei tre vincoli esterni da cui è stretta l'Italia: l'atlantico, l'europeo e il finanziario. Si può esser sovranisti quanto si vuole, ma prima bisogna rispettare il principio di realtà e il principio di realtà dice che la sovranità italiana può essere esercitata esclusivamente entro il perimetro disegnato da quei tre vincoli. La presidente è partita dall'atlantismo, favorita da una chiara opzione in pro dell'Ucraina che in questo caso le era stata dettata non dalla prudenza ma da una scelta di valore: un sovranista conseguente non può accettare l'invasione di uno Stato sovrano. Anche facendo forza sull'atlantismo, poi, è entrata nel gioco europeo. Infine, ha tenuto rigorosamente sotto controllo i conti, portando, con l'aiuto delle circostanze, lo spread ai livelli più bassi da quindici anni a questa parte.
Così facendo, Meloni ha ottenuto tre risultati. In primo luogo, ha consentito al Paese di presentarsi nell'arena internazionale con un minimo di forza e credibilità. In quell'arena la presidente si sta adesso giocando molto dignitosamente le sue partite, sarebbe difficile far di meglio, governando l'Italia. In secondo luogo, si è accreditata a Washington e Bruxelles malgrado fosse alla guida di un gabinetto di destra cosiddetta populista. Questo le ha consentito da un lato di riconciliare un segmento importante dell'elettorato italiano con l'Unione Europea, operazione essenziale per il rispetto del principio di realtà di cui sopra; dall'altro di proporsi come modello globale di ricostruzione della stabilità istituzionale a valle dell'«insurrezione» populista. In terzo luogo, ha dimostrato l'assurda faziosità delle migliaia di pagine sul pericolo fascista e l'eventualità di un'«Italexit» che sono state stampate nel 2022 in Italia e all'estero, destinandole alla misericordiosa pattumiera della storia. Nell'assurdamente faziosa Italia si continua, malgrado tutto, a insistere con queste faziose assurdità ma all'estero, forse, qualcosa hanno imparato.
Nel mondo di oggi, la prudenza è la virtù più importante. Gli italiani paiono essersene accorti, e anche a ciò si deve, con ogni probabilità, il perdurante successo politico di Meloni. È la virtù più importante perché l'ordine che ha retto il mondo negli ultimi trent'anni sta collassando e nessuno riesce a capire se un ordine alternativo stia prendendo forma, e quale. Tutte le bocce sono in movimento, nella maniera più caotica e pericolosa e in una situazione come questa un giocatore di medio peso come l'Italia, gravato da tante debolezze, deve muoversi con la massima cautela. Non può permettersi di anticipare i tempi, non può consentirsi azzardi, non può nemmeno lanciarsi a cogliere opportunità allettanti ma rischiose. Deve giocare di rimessa e cercare di limitare i danni.
Ma, dicevo all'inizio, anche la prudenza può essere un limite. A questo punto dovrebbe essere evidente perché: perché trattiene dall'osare, dal tentare un passo un po' più lungo, dal provare a modificare qualche equilibrio strutturale. Per trent'anni ci è stato detto che l'Italia aveva bisogno di riforme profonde e dolorose: per rimediare al calo demografico, per la competitività, per la crescita. Quante volte ci è stato ripetuto che eravamo all'ultima spiaggia, che bisognava fare presto? Per trent'anni queste riforme non sono state fatte, o tutt'al più ne è stato introdotto qualche pezzetto insufficiente a far sì che il Paese tornasse a crescere, competere e far figli. Malgrado abbiano governato la destra, la sinistra, i populisti e i tecnici. Oggi di queste riforme profonde e dolorose quasi non si parla nemmeno più. Forse perché l'opinione pubblica, con qualche ragione, si è stancata dei discorsi. Ma l'Italia continua a crescere poco, nella demografia e nell'economia.
E il governo Meloni rischia allora di essere ricordato nei libri di storia come un esecutivo certo responsabile e pragmatico, ma che nell'ottima compagnia di tutti i suoi predecessori ha finito per amministrare il declino del Paese.