
Ma davvero destinare il 5% al riarmo è un disastro, come la sinistra vorrebbe far credere?
Potrebbe esserlo solo se l’Italia sceglie di subirlo. Altrimenti è un’occasione storica.
Destinare il 5% del PIL alla difesa, in altri tempi, poteva sembrare un’eresia contabile, uno spreco o un azzardo. Ma i tempi sono cambiati. L’Europa è fragile, accerchiata e vulnerabile. In questo scenario, l’investimento difensivo può diventare una leva di rilancio nazionale, superando la visione antiquata di difesa.
La difesa non significa solo armamenti. È tecnologia, infrastruttura e industria strategica. È sicurezza dei confini ma anche sicurezza produttiva, digitale e logistica. Per un Paese come il nostro, con ritardi e obsolescenze su questi fronti, l’obbligo del 5% può trasformarsi in una leva di ricostruzione economica.
Oggi l’Italia spende circa l’1,5% del PIL in difesa. Per arrivare al 5% servirebbero almeno 70 miliardi di euro in più all’anno. Una cifra enorme. Ma se quei fondi fossero indirizzati verso filiere industriali italiane, tecnologie a doppio uso e investimenti strategici, diverrebbero moltiplicatori di sviluppo, lavoro e competitività.
Serve un cambio di logica. Da troppo l’Italia partecipa a programmi internazionali senza pretendere un ritorno proporzionato. Abbiamo eccellenze come Leonardo, Fincantieri, Avio Aero, che vanno finalmente messe al centro. Serve una nuova IRI della sicurezza, capace di investire in ricerca, cybersicurezza, droni, spazio, intelligenza artificiale e robotica.
Ma non finisce qui. Anche le infrastrutture civili – strade, ferrovie, porti, reti digitali – se concepite con criteri di utilità strategica, rientrano nella logica militare anche per la dottrina NATO. Ciò significa che una quota importante del 5% può ammodernare il sistema infrastrutturale italiano, spesso lasciato in secondo piano.
Il progetto Rearm Europe, se applicato con intelligenza, può diventare la CECA del XXI secolo. Ai tempi carbone e acciaio crearono coesione politica. Oggi possono crearla microchip, droni, logistica e sicurezza energetica. Una nuova economia europea attorno a un interesse pubblico comune.
Il 5% alla difesa non è una dichiarazione di guerra. È una dichiarazione di indipendenza industriale, tecnologica e politica.
Per l’Italia, è l’occasione per riprendere il controllo del destino produttivo e uscire dalla logica dell’emergenza.
Perché ogni battaglia si combatte su più livelli. In quello tattico conta l’abilità dei soldati, in quello strategico quella degli ufficiali. Più sopra, a livello logistico, conta il valore delle infrastrutture. E più sopra ancora, a livello politico, conta la qualità della classe dirigente. Ma il livello più alto, che domina gli altri, è quello culturale.
È lì che si decide la tenuta di una nazione: nella capacità di riconoscere e coltivare un’idea di futuro.
E la difesa comune non è solo difesa militare. È la difesa dell’identità europea.
E per destino, questa volta, può cominciare da noi.