Scontro tra vecchi leader e i comandanti "giovani": ecco perché Hamas è in crisi

La leadership in esilio apre al dialogo, ma i comandanti rimasti a Gaza rifiutano ogni concessione. Scontri interni, crisi economica e pressioni di Washington e Doha mettono il movimento islamista in crisi

Scontro tra vecchi leader e i comandanti "giovani": ecco perché Hamas è in crisi
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Sarà uno dei leader di spicco di Hamas, Khalil al-Hayya, a guidare i negoziati per porre fine alla guerra di Gaza. La delegazione arriverà al Cairo oggi, prima di dirigersi a Sharm el-Sheikh per i colloqui di domani. Le discussioni inizieranno con la creazione delle condizioni affinché gli ostaggi vengano rilasciati entro pochi giorni, con l'aiuto della Croce Rossa. Ma nell'organizzazione qualcosa scricchiola.

Come racconta Guido Olimpio dalle pagine del Corriere, Hamas continua a presentarsi come un’organizzazione a tre teste, ma sempre più lacerata al suo interno. La prima componente è quella della diaspora, con i dirigenti storici basati tra Doha e Beirut; la seconda è guidata dal capo militare e politico Izzedine al Haddad, rimasto a Gaza; la terza è formata da una nuova generazione di quadri che ha preso il posto dei comandanti caduti e che oggi si mostra più radicale e ostile a qualsiasi concessione.

Secondo analisi diffuse in queste ore da diversi osservatori internazionali, proprio questi “giovani” comandanti costituirebbero la corrente più intransigente, contraria a ogni compromesso con Israele e diffidente verso i piani di mediazione statunitensi. La loro influenza è cresciuta di pari passo con l’indebolimento della catena di comando, frammentata dai bombardamenti israeliani e dalla perdita di molti vertici delle Brigate Ezzedine al Kassam.

Sul piano politico, Hamas ha formalmente espresso il proprio assenso di principio al piano di pace proposto dagli Stati Uniti, che prevede il rilascio di tutti gli ostaggi e la graduale smilitarizzazione della Striscia in cambio della ricostruzione e di garanzie di sicurezza. Washington ha chiesto a Israele di sospendere le operazioni militari come gesto preliminare, mentre il governo israeliano ha accettato di ritirarsi fino a una “linea di sicurezza concordata” solo dopo la conferma ufficiale dell’accordo.

Dietro le aperture diplomatiche, tuttavia, si celano divisioni profonde. I dirigenti in esilio appaiono più disponibili al negoziato, ma lamentano difficoltà di comunicazione con Gaza e problemi nel recupero dei corpi degli ostaggi morti. All’interno della Striscia, invece, i comandanti sul campo continuano a opporsi a ogni cessazione del conflitto, convinti che fermarsi equivarrebbe a una resa.

Le tensioni si riflettono anche sul terreno. Negli ultimi giorni si sono registrati scontri tra Hamas e alcuni clan locali sostenuti indirettamente da Israele, in particolare la comunità degli Al-Majaida nella zona di Khan Yunis. Le forze del movimento hanno tentato un’incursione contro la milizia guidata da Hussam al Astal, ex ufficiale della sicurezza palestinese, oggi armato e finanziato da Tel Aviv. L’episodio dimostra quanto l’autorità del gruppo islamista sia minacciata da poteri locali autonomi e da una crescente insofferenza civile.

In parallelo, si moltiplicano le proteste anti-Hamas nella Striscia, con manifestazioni spontanee contro la guerra, la crisi economica e la gestione autoritaria del territorio. Anche gli attacchi israeliani mirati alla leadership esterna — come quello di settembre a Doha, che ha colpito la residenza di vari esponenti del movimento — hanno contribuito a destabilizzare i vertici e a generare vuoti di potere.

In questo quadro, la posizione di figure come Khalil al-Hayya e Khaled Meshal rimane incerta. Il primo, sopravvissuto a un raid israeliano e attualmente impegnato nei colloqui al Cairo, si sarebbe espresso a favore della proposta americana, ma condizionandola a ulteriori garanzie. Al Haddad, dal suo quartier generale a Gaza, condivide la linea ma deve convincere i miliziani più radicali, decisi a proseguire la lotta armata.

L’equilibrio interno di Hamas appare quindi sempre più fragile. Da un lato c’è la spinta di chi vede nel piano statunitense una possibile via d’uscita dal disastro umanitario, dall’altro l’ala militare che interpreta ogni concessione come un tradimento.

Il futuro del movimento — e la possibilità di una tregua duratura — dipenderanno dalla capacità della sua dirigenza di superare queste fratture, presentandosi unita nei negoziati in corso tra Egitto, Qatar e Stati Uniti.

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