
Qual è la scintilla che accende l’Alzheimer? Non un fulmine improvviso, ma una lenta sottrazione. Un’assenza minuscola, invisibile agli occhi, che comincia a scavare come una goccia ostinata. Alla Harvard Medical School, dieci anni di esperimenti hanno dato un nome a questo vuoto: il litio, metallo silenzioso, guardiano discreto della memoria. È lì, da sempre, nelle pieghe del cervello, e quando si allontana, la mente perde l’equilibrio, inciampa nei ricordi, smarrisce il filo dei giorni.
Bruce Yankner, genetista e neurologo, racconta che nei tessuti cerebrali dei malati la sua presenza è come un tramonto lento: si ritira prima che il buio arrivi. Senza litio, le proteine nemiche – la beta-amiloide e la tau – possono tessere le loro trappole, infiammare, distruggere, togliere respiro alle sinapsi. Ma se lo si riporta al suo posto, se lo si veste di un composto capace di sfuggire alla cattura, l’orotato di litio, allora nei topi le ferite si richiudono, le cellule riprendono a parlarsi, la memoria torna a respirare. È una promessa. Forse anche un miraggio. Ma ogni nuova alba comincia così, con una luce fragile.
La storia, in realtà, comincia altrove. Novembre 1906, Tübingen. Alois Alzheimer si alza davanti ai colleghi. Non parla di chimica o di metalli, ma di una donna. Augusta D. Non ha ancora cinquant’anni, e già vaga come se il mondo fosse una stanza buia. Dimentica nomi, inventa paure, confonde i volti. Alzheimer l’ha seguita per anni, poi, alla sua morte, ha aperto il cranio e ha osservato il teatro segreto della malattia: placche, grovigli, tracce indelebili di una mente che si stava spegnendo. Nessuno aveva mai descritto quel paesaggio prima di lui.
Per decenni, la scienza ha camminato su quel sentiero, cercando di capire perché alcuni crollano e altri restano in piedi. Le proteine tossiche erano l’ombra, ma non spiegavano tutto. Serviva un “anello mancante”, un custode che, quando cade, lascia la porta spalancata. Oggi, a distanza di più di un secolo, il litio potrebbe essere quel custode.
C’è un’immagine che Yankner usa e che sembra rubata a un romanzo: studiare un cervello nelle fasi finali dell’Alzheimer è come guardare un campo di battaglia dopo una guerra. È macerie e silenzio. Ma nelle prime ore, quando il ponte levatoio comincia a cedere e il nemico è ancora lontano, si può capire da dove arriverà l’assalto. È lì che il litio svanisce. È lì che, forse, tutto inizia.
Se un giorno questa scoperta diventerà terapia, se un giorno una piccola dose calibrata potrà fermare la discesa, allora Harvard e Tübingen si stringeranno la mano attraverso il tempo.
E il gesto di Alois Alzheimer – guardare in un cervello e leggere il dolore scritto tra le cellule – troverà un seguito degno. Perché la scienza, a volte, è proprio questo: riconoscere che il passato e il futuro si incontrano in un istante preciso, quello in cui il ricordo smette di perdersi