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Parkinson, una nuova scoperta riconsidera il trattamento con levodopa

Lo studio apre le porte a possibili future nuove terapie per il trattamento di questa patologia neurodegenerativa

Parkinson, una nuova scoperta riconsidera il trattamento con levodopa
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Uno studio condotto dai ricercatori dell'Università McGill e pubblicato su Nature Neuroscience ha messo in discussione un'idea di lunga data, ovvero il modo in cui la dopamina (un neurotrasmettitore) influenza il movimento. Questi risultati potrebbero aprire la strada a una comprensione migliore e a nuovi trattamenti del morbo di Parkinson.

Cos'è il morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è un disturbo neurodegenerativo a lenta ma progressiva evoluzione. Lo caratterizza la neurodegenerazione dei neuroni della substantia nigra, una piccola area del sistema nervoso centrale. Il loro compito è quello di produrre la dopamina, una molecola fondamentale per il controllo del movimento e della postura.

Nel 70% dei casi a soffrire della patologia sono i soggetti con più di 65 anni, soprattutto uomini. Gli episodi a esordio giovanile sono rari (rappresentano infatti circa il 5% delle diagnosi) e quasi sempre vengono considerati geneticamente determinati.

Cause: forme ereditarie e mutazioni genetiche

Le cause precise della malattia sono ancora sconosciute, tuttavia la scienza concorda sulla sua genesi multifattoriale. Da un punto di vista genetico sono state individuate forme ereditarie (10-15% dei casi) provocate dalla mutazione di determinati geni: Parkina, Alfa-sinucleina, Glucocerebrosidasi, PINK1, DJ1, LRRK2-dardarina.

Si è altresì notata una relazione tra l'insorgenza del Parkinson e alcuni fattori ambientali. Questi includono lo stile di vita (fumo di sigaretta, dieta sbilanciata) e l'esposizione a sostanze tossiche (metalli pesanti, pesticidi, insetticidi, idrocarburi, prodotti chimici industriali e usati in ambito agricolo).

Non dimentichiamo, infine, il ruolo dei fattori endogeni. Tra di essi figurano l'accumulo di ferro nella substantia nigra, lo stress ossidativo, le disfunzioni mitocondriali e il fenomeno dell'eccito-tossicità.

Il ruolo della dopamina nel morbo di Parkinson

Il neurotrasmettitore dopamina influenza in maniera significativa la forza e la velocità dei movimenti. Nei pazienti parkinsoniani le cellule cerebrali che la producono si degradano nel tempo. Ciò si traduce nei tipici sintomi, ossia lentezza, tremori e problemi dell'equilibrio.

Attualmente la levodopa è il trattamento d'elezione per ripristinare il movimento, aumentando i livelli di dopamina nel cervello. Tuttavia non è ancora del tutto chiaro il meccanismo preciso attraverso cui il farmaco esercita i suoi effetti. Negli ultimi anni strumenti di monitoraggio cerebrale hanno rilevato brevi fluttuazioni dei livelli di dopamina durante il movimento.

Si è così ipotizzato che il neurotrasmettitore potesse controllare direttamente l’intensità e il vigore dei movimenti. In realtà le nuove scoperte hanno messo in discussione tale ipotesi.

Lo studio

Gli scienziati dell'Università McGill sono giunti alla conclusione che la dopamina non agisce come un controllore del movimento istante per istante. Per testare questa ipotesi il team ha monitorato l'attività cerebrale dei topi mentre gli animali premevano una leva pesante. Impiegando un metodo basato sulla luce, riuscivano ad accendere o a spegnere le cellule produttrici di dopamina durante il compito.

Secondo l’ipotesi iniziale, i cambiamenti dei livelli di dopamina avrebbero dovuto modificare la velocità o la forza dei movimenti dei roditori.. In realtà la regolare attività dopaminergica durante il movimento non ha sortito alcuna differenza. Successivamente gli studiosi hanno testato la levodopa e hanno scoperto che il farmaco migliorava le movenze incrementando il livello complessivo di dopamina nel cervello, piuttosto che modulando le fluttuazioni rapide durante l’azione.

Verso trattamenti più mirati

Secondo i ricercatori la comprensione più dettagliata di come agisce la levodopa potrebbe guidare lo sviluppo di futuri trattamenti concentrati sul mantenimento dei livelli stabili di dopamina.

I risultati dell'analisi incoraggiano altresì gli studiosi a rivedere le strategie di cura più vecchie.

In passato gli agonisti dei recettori della dopamina hanno mostrato benefici, tuttavia causavano fastidiosi effetti collaterali.

La nuova intuizione potrebbe dunque aiutare il team a progettare terapie più sicure che agiscano in maniera selettiva. Servono ulteriori approfondimenti.

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