Il "fattore K" della sinistra

A destra non solo la coalizione c'è. Essa è anche ben equilibrata. Dall'altra parte, specularmente, la situazione appare maledettamente complicata

Il "fattore K" della sinistra
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L'arresto di Giovanni Toti, le strategie della magistratura per indurlo alle dimissioni, la condanna, seppure minimale rispetto a ciò che si era paventato, rendevano realmente arduo immaginare che il centrodestra potesse vincere in Liguria. Quando è accaduto, Alessandro De Angelis, a caldo, ha scritto che la sinistra ha sbagliato «un rigore a porta vuota».

Tanti fattori hanno determinato quell'esito imprevedibile. Uno, però, conta più degli altri. Lo conferma anche il dibattito post-elettorale. Si potrebbe definire «fattore koalition», prendendo in prestito il termine dalla Germania dove la coalizione è stata sovente determinante. Un altro «fattore k», dunque, che giunge a rinnovare quello a suo tempo coniato da Alberto Ronchey, giornalista di rara intelligenza. La Liguria, infatti, ha chiarito meglio ciò che già prima era chiaro: la «coalizione» a destra ha residenza stabile ed è realtà consolidata, quasi naturale; a sinistra, invece, deve considerarsi una sorta di araba fenicia che, come da prescrizione, finisce periodicamente in cenere.

Il nuovo «fattore k» rappresenta oggi il vero vantaggio di Giorgia Meloni, mentre è il problema maggiore per Elly Schlein. A destra non solo la coalizione c'è. Essa è anche ben equilibrata, al punto da sembrare modellata sulle esigenze della presidente del Consiglio. Il suo partito è stabilmente il primo dell'alleanza e lo è su tutto il territorio nazionale. In elezioni parziali può andare meglio o peggio, ma non abdica dal ruolo di guida dell'alleanza. A «destra-destra» alberga ormai la Lega, che interloquisce con movimenti e partiti europei sospinti dal vento del tempo. Ciò consente a Meloni di mantenere con essi una certa distanza. Così da poter lucrare l'interesse del contesto internazionale per una destra di governo sì ma non estrema. Sull'ala sinistra dell'alleanza agisce Forza Italia, al momento unica formazione radicata ad occupare il centro. Le sue esigenze hanno una valenza teorica ma non dirompente. Così come per lo «ius scholae», si fermano sull'uscio del Consiglio dei ministri. L'equilibrio è per ora perfetto. Solo una radicalizzazione del quadro internazionale potrebbe turbarlo. Fino a quel giorno, se mai giungerà, Meloni seguirà il saggio principio del «quieta non movere».

Dall'altra parte, specularmente, la situazione appare maledettamente complicata. Elly Schlein ha stravinto la battaglia per la guida dell'alleanza, ma il prezzo pagato sembra essere salato: la possibilità stessa di una coalizione degna di tal nome. Il suo unico alleato affidabile sono i rosso-verdi di Fratoianni e Bonelli, il che squilibra ancora più a sinistra la sua segreteria. Conte è in difficoltà, e ciò secondo alcuni potrebbe renderlo più mansueto: errore da matita rossa. Proprio i problemi interni indurranno il leader dei 5 Stelle ad accentuare le dinamiche autonomistiche e trasformistiche, per essere costante spina nel fianco dell'alleato maggiore. Se poi il suo declino risultasse inarrestabile, ciò per Schlein non sarebbe notizia migliore. Con ogni probabilità, nascerebbe, allora, un movimento fuori del sistema con l'imprinting dei 5 Stelle originali. Al centro, poi, il Pd avrebbe bisogno di una forza nuova e credibile, in grado di scrivere una pagina nuova. Ad oggi, però, su quella stessa pagina pasticciano Renzi e Calenda. L'impresa di far passare un messaggio diviene così ancora più ardua.

Schlein reagisce a tutto questo puntando sul Pd, dandosi l'obiettivo di farne nuovamente il primo partito d'Italia. Si racconta che quando nel 1947 i comunisti occuparono la prefettura di Milano per protestare contro la sostituzione di un «prefetto della Resistenza», Pajetta, capo delle operazioni, telefonò a Togliatti per comunicargli l'avvenuta conquista.

Ma si sentì rispondere: «E adesso cosa te ne fai?». Togliatti, se potesse, risponderebbe la stessa cosa a Elly Schlein che, se vuole davvero vincere, prima deve fare i conti con il nuovo «fattore k»: una vera strategia per una vera coalizione.

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