
In Italia, destra e sinistra sono uscite in due maniere diverse dalla stagione populista. O meglio: la destra ne è uscita più della sinistra. Questo spiega perché, mentre l'una governa e vince le elezioni, l'altra stenta a esser competitiva. Ma andiamo con ordine.
In anticipo rispetto agli altri Paesi occidentali, la Penisola ha attraversato un decennio populista apertosi nel 2013 con l'esplosione elettorale del Movimento 5 stelle, all'indomani della crisi del debito sovrano, del fallimento della repubblica bipolare e del governo Monti, e giunto a conclusione nel 2022 con la vittoria della coalizione di destra-centro guidata da Giorgia Meloni. Quel decennio non è terminato perché il populismo sia scomparso. Si è cronicizzato, semmai: il nostro sistema politico è ancora stracolmo di tratti populisti, faziosità, demagogia, spregio della realtà e della grammatica istituzionale, attacchi isterici assortiti e moralismo a un tanto al chilo.
È terminato perché, con ogni evidenza, dal 2022 siamo entrati in una nuova fase. L'astensione è cresciuta, i risultati elettorali si sono consolidati e i pochi italiani che si scomodano a votare paiono meno disposti di prima a inseguir farfalle e più ansiosi di stabilità e concretezza. Non si spiegherebbe altrimenti la capacità di Meloni di conservare i propri consensi a dispetto di ogni legge di gravità politico-elettorale. Poiché il populismo procede a ondate, nulla vieta che domani o dopodomani parta un nuovo tsunami. Ma oggi è così.
Bene o male, la destra si è adattata al nuovo clima. Poiché nella coalizione creata da Silvio Berlusconi una componente moderata e di governo ha sempre convissuto con una populista, la destra ha avuto trent'anni per abituarsi a far funzionare la convivenza. Su questo versante politico, poi, gli elettori tendono a premiare il convergere dei partiti e punirne il divergere. Non mancano le ambiguità, certo: le parole di Meloni sanno di destra populista molto più delle sue azioni, quelle di Salvini più di quelle di Meloni, quelle di Vannacci più di quelle di Salvini. Le politiche della sicurezza traboccano di populismo penale. Ma nel complesso, nei fatti e sui fondamentali, questo governo ha i piedi saldamente piantati per terra e si muove in maniera cauta e responsabile. Agisce con metodo contrario a quello populista, insomma.
Protagonista di questa metamorfosi è stato il Presidente del Consiglio. Poiché l'Italia è un Paese esposto ai venti internazionali e il senso di realtà cui deve ispirarsi chi la governa è soprattutto quello dei rapporti di forza globali, il processo di adeguamento al nuovo clima è cominciato in un momento ben preciso: il 24 febbraio del 2022, giorno dell'invasione russa e della chiara scelta di campo di Giorgia Meloni a favore dell'Ucraina. Sia pur fra mille ambiguità, così, a destra la cultura di governo sta riprendendo forma già da tre anni e mezzo.
A sinistra non ha nemmeno cominciato. Non solo: per ogni passo in avanti, su quel versante ne vengono fatti due indietro. Un tempo la formula del partito di lotta e di governo, capace di stare in piazza e nelle istituzioni, si applicava ai comunisti. Ma quella formula, ammesso pure che abbia mai davvero rispecchiato la realtà, valeva decenni fa. Negli ultimi vent'anni la sinistra italiana, come tutte le sinistre occidentali, si è incistata sempre più a fondo nelle casematte del potere culturale e istituzionale. E ha contribuito a generare così l'insurrezione populista, che da quel lato si è incanalata soprattutto nel Movimento 5 stelle.
Da allora la sinistra tradizionale è andata disperatamente all'inseguimento, battendo ogni strada possibile. Dall'imitazione delle forme populiste ma con segno ideologico diverso (governo Renzi) al ritorno a un profilo moderato (governo Gentiloni, segreteria Letta). Dall'alleanza coi populisti sperando di fagocitarli (governo Conte II) all'adozione sostanziale del loro punto di vista: Elly Schlein. Complice anche un elettorato più politicizzato di quello di destra e perciò più difficile da comporre nelle sue diverse anime.
Così come Meloni ha riportato la destra al governo con una scelta di politica estera, allo stesso modo è soprattutto su quel terreno che la sinistra dimostra la propria immaturità. Su Gaza ha ceduto al richiamo della foresta movimentista e si è fatta dettare la linea dalla piazza, sperando di ricavarne chissà quali dividendi emotivi, etici, politici e infine elettorali. Ma quel che ha guadagnato in intensità ha ovviamente perduto in estensione, richiudendosi dentro l'eterno ghetto della sinistra-sinistra che in Italia, da mezzo secolo a questa parte, vale non più di un terzo dei voti. Ammesso pure che la simpatia nei confronti della causa palestinese sia così diffusa nella Penisola, e mi permetto di dubitarne, la stragrande maggioranza del Paese rifiuta di farsi dettare la linea dalle piazze. E si comporta in questo modo da sempre. Non si può che restar stupefatti di fronte alla coazione a ripetere e all'incapacità d'imparare.
Tanto più che c'era un rigore a porta vuota da tirare: senza rinnegare le
manifestazioni, aderire con convinzione al piano Trump che, con tutti i suoi limiti, tutti hanno accettato perché è l'unica cosa che c'è. Poteva essere il 24 febbraio della sinistra. È stata l'ennesima occasione perduta.