
Grida allo scandalo Elly Schlein. L'idea che qualcuno possa scegliere di non recarsi alle urne per i referendum, viene trattata dal Partito Democratico alla stregua di un atto eversivo. A tal punto da prendersela persino con Ignazio La Russa, reo di aver evocato peraltro in toni tutt'altro che incendiari la legittimità dell'astensione. Il presidente del Senato, infatti, ha dichiarato che voterà, consapevole del ruolo istituzionale che ricopre, ma che nulla gli vieta di consigliare ad altri una scelta diversa, quella di non partecipare. Parole che, per la sinistra, sembrano violare i confini della democrazia costituzionale. Ma è proprio la Costituzione quella scritta anche dai padri fondatori del Partito Comunista a prevedere, all'articolo 75, che un referendum abrogativo sia valido solo se vi partecipa almeno la metà più uno degli aventi diritto. Una norma chiara, che rende legittime tre opzioni: votare sì, votare no, oppure non votare affatto. Se davvero esistesse un obbligo di partecipazione, il legislatore non avrebbe fissato un quorum.
Non c'è nulla di eversivo, dunque, nella scelta dell'astensione. Semmai, un uso spregiudicato della consultazione potrebbe essere rintracciato nella strategia del Pd, che dietro la retorica della partecipazione popolare cela un obiettivo ben preciso: sancire la definitiva estromissione di ogni residuo riformista dal partito.
Non sfugge, infatti, come il vero significato del voto referendario contro il Job Act non risieda tanto nei quesiti, quanto nella ritualità del gesto. Votare significherà pronunciare un atto di abiura collettiva, tagliando i ponti con l'eredità renziana e chiudendo simbolicamente l'epoca in cui il Pd cercò, sull'esempio del New Labour di Blair, un'autonomia politica e culturale rispetto alla Cgil e ai vecchi schemi ideologici.
La segreteria Schlein, invece, punta oggi a normalizzare il partito secondo nuove coordinate: ambientalismo radicale, subalternità al sindacato, e ambiguità strategica su dossier cruciali come la difesa comune europea. Una linea che allontana il Pd dalla sua vocazione maggioritaria e dalla cultura di governo che, nel 2014, portò il partito a sfiorare il 41% alle elezioni europee.
È un cambio di paradigma che mira a costruire un'alleanza eterogenea grillini, verdi, sinistra radicale dove la somma dei numeri potrebbe, in teoria, sfidare il centrodestra. Ma il prezzo rischia di essere altissimo: la perdita dell'identità riformista, la rinuncia alla propria storia migliore, e la resa definitiva a una cultura minoritaria, spesso velleitaria.
Così, più che una prova di democrazia partecipata, i referendum del Pd rischiano di segnare il passo finale di una
trasformazione profonda: dal partito a vocazione maggioritaria a coalizione a trazione massimalista. Una scelta che non rafforza l'alternanza, ma la indebolisce. Con danni potenzialmente gravi per l'intero sistema politico italiano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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