Per quasi tutti era solo il fruttivendolo di St. Moritz, un italiano simpatico, un po' stempiato, con gli occhi spesso gonfi per il poco sonno e la passione di scendere giù lungo canali di neve e ghiaccio, con qualsiasi cosa scivolasse a filo di lama. Nino Bibbia nel 1948 non era più un ragazzino, ventisei anni per chi ha vissuto la guerra sono una vita. È arrivato in Svizzera da Bianzùn, Bianzone, un paese della Valtellina, in provincia di Sondrio, con lo Stelvio in lontananza. È gente di contrabbando. Nino non pensava ancora di fare sport. Si divertiva. Solo che il 1948 è un anno di ripartenza e lì, a St. Moritz, per dieci giorni ci sono le Olimpiadi. Il 30 gennaio Nino partecipa alla gara di Bob, in coppia con Edilberto Campadese. Arrivano ottavi. Ci riprova con il Bob a 4 e arrivano sesti. Quello che davvero Nino faticava a immaginare è la due giorni sulla Cresta Run. Gli svizzeri, da queste parti, vanno giù con un trabiccolo che da lontano sembra uno slittino, solo che non ci si sdraia di schiena ma sul ventre, faccia alla discesa, quasi a sfidare la paura. È uno sport olimpico e si chiama skeleton, scheletro. Nino Bibbia ci andava su da una settimana, tanto per vedere l'effetto che fa. La gara olimpica è di sei discese in due giorni. Nino è sempre ai vertici e alla fine è primo con due secondi e quattro decimi di vantaggio. È il primo oro italiano alle Olimpiadi invernali.
Lo skeleton da allora scompare dal programma olimpico, per tanti e lunghi anni. Nino continua a scendere lungo la Cresta Run e vince più di duecento gare e tre mondiali. Lo skeleton ritorna olimpico a Salt Lake City nel 2002. Nino Bibbia è ancora leggenda.
Non c'è nulla di più magico di entrare in una olimpiade, se lo fai da atleta lasci un segno che non si consuma, se ci sei solo per raccontarla non riesci a dimenticarla. Le storie non le puoi narrare tutte, allora ne scegli qualcuna. Questa volta vale la pena ricordare i pionieri degli sport invernali. A St. Moritz c'è anche un toscanaccio dell'Abetone che scende giù sugli sci accucciato, a uovo, e l'anno prima ha segnato sul Cervino il record del mondo sul chilometro lanciato. È un record che durerà diciassette anni. Solo che in Svizzera Zeno Colò va malissimo, quattordicesimo nello slalom e una brutta caduta in discesa. Devono passare quattro anni, dove a livello mondiale vince quasi tutto, per prendersi la rivincita. È il 1952 e si va a Oslo. La discesa è sua. È il primo oro olimpico italiano nello sci e i giornali lo battezzano, con poca fantasia, il Falco di Oslo. È che da allora non abbiamo più vinto un oro in discesa. È con lui che lo sci italiano comincia a diventare popolare, per diventare di massa prima con Thoeni e Gros e la "valanga azzurra" e poi quasi senza limiti con Tomba, la Bomba.
C'è spazio per ricordare Eugenio Monti, "il rosso volante", come lo battezzò Gianni Brera per i capelli e il furore. Vinse due ori nel bob a 40 anni, a Grenoble 1968.
La sua grandezza si vede però 4 anni prima a Innsbruck, quando prestò un bullone all'equipaggio britannico. Gli inglesi sono d'oro e gli italiani di bronzo. Ai giornali che lo criticano per "fessaggi" Monti risponde: "Nash non ha vinto perché gli ho dato il bullone. Ha vinto perché è andato più veloce".