Mario Andreose è una figura centrale dell'editoria italiana, uno dei silenziosi autori del romanzo di formazione di almeno tre generazioni di giovani. Esce oggi per La nave di Teseo il suo terzo libro, Un'educazione veneziana (pagg. 208, euro 20) e il mio primo pensiero - sia prima che dopo la lettura - va alla persona fisica di Mario, al suo aplomb, alla sua eleganza naturale, di cui il libro appare come una sorta di prolungamento parlante. Un libro spiritualmente affacciato sulla Giudecca dal podio delle Zattere - quindi una Venezia «esterna» - a segnare una vocazione marittima che traspare, più che dal contenuto del racconto, dal suo tono particolare.
Il libro si presenta come un'avventura umana raccontata col garbo di chi non ha nessuna intenzione di centrare l'attenzione su di sé, ma soltanto sugli eventi che la fortuna e il carattere gli hanno permesso di attraversare. Si corre così sul filo degli argomenti e delle occasioni, con andate e ritorni frequenti negli anni.
Incontriamo una Venezia popolana, il piccolo Mario con l'unico vestito da balilla quando cade il Duce, le scuole cattoliche, il ritorno del Cinema nel 1948, le escursioni sulla terraferma e in montagna, le gare nautiche, gli amori segreti, le avventure galanti lasciate nella parte oscura della pagina, il papà artigiano del pane, fumatore accanito, i primi viaggi a Milano in cerca di lavoro, la passione per l'arte.
Il tutto, come detto, in un andirivieni temporale che è come andare in gondola, offerto al lettore con l'onestà di chi sa che è la vita a fare di noi quello che siamo, e che perciò non è di linee evolutive che ha bisogno un racconto autobiografico, ma piuttosto di un punto di osmosi, così che gli incontri di cui è fatta la nostra esistenza (quelli causali come quelli ostinatamente voluti) possano entrare nella pagina allo stesso modo in cui, precedentemente, sono entrati nella vita.
Le osservazioni da fare sono numerose, mi limiterò ad alcune.
Lo stile. Se lo stile è l'uomo, come fu detto, Un'educazione veneziana è un modello di stile. Andreose, pur scrivendo benissimo, non intende «fare» lo scrittore, non cerca simboli, sottotesti. Tutto è alla luce. Il cronista non interpreta, lascia che le cose accadano, e se nelle cose esiste una trama si rivelerà lentamente, né è detto che debba rivelarsi anzitutto a chi le ha vissute. Colpisce, per esempio, il racconto, del tutto privo di interpretazioni, della gioventù da cattolico praticante e attivo, messa quotidiana, servizio da chierichetto, attività sociale: l'autore non rinnega nulla, non emette giudizi, la successiva «perdita della fede» (espressione in cui circola un'ombra di dispiacere) resta una storia privata, che l'autore non divulga. Assistiamo alle sue conseguenze, è vero, ma la mano non viene mai calcata, la discrezione è d'obbligo.
Venezia. «Veneziani gran signori» dice la filastrocca, che continua: «padovani gran dottori, vicentini magna gati, veronesi tuti mati». Come si vede, la stima decresce man mano che le città si allontanano dal mare, e questo ha un suo perché. Venezia trattiene nel suo ventre due pagine di storia distinte: lo «Stato da mar» e lo «Stato da tera». Il primo racchiude memorie bizantine, greche, armene, cipriote, cretesi: frammenti della fortuna coloniale della Serenissima. Il secondo adombra il potere sull'entroterra, fino a Bergamo, dove Venezia faceva villeggiatura e che diede i natali al suo più grande artista: Tiziano Vecellio.
La Venezia marittima permane nel profumo d'Oriente e nel carattere dei veneziani, cosmopolita e insieme geloso del proprio isolamento, segnato da tratti italiani ma anche inglesi, ossia isolani, e successivamente, americani. Nel romanzo di formazione di Andreose gli scrittori italiani non occupano il posto principale, si parla più di Thomas Mann (significativa l'identificazione del narratore con Hans Castorp de La montagna incantata), di Joyce (autore-totem di quello che fu il suo più caro amico, Umberto Eco), di Proust (bella la pagina su Un amour de Swann), di Faulkner. Hemingway camminava per la città, lo incontravi spesso ubriaco all'Harry's Bar in compagnia di attori, cineasti, gente comune.
Il Cinema viene qui raccontato in modo speciale, non come un evento semplicemente culturale ma come parte della vita quotidiana. Gli artisti passano dalla pellicola alle calli e poi di nuovo alla pellicola con naturalezza, come se questo passare fosse parte del paesaggio veneziano, della sua natura. Le memorie cinematografiche fanno tutt'uno con quelle familiari, con le tante zie (quella ricca, quella bella) che sembrano anch'esse personaggi del cinema.
Ma forse la passione più determinante è quella artistica, toccata anche da un pallido inizio, poi abortito, di vocazione pittorica. Nel libro si parla tanto di pittori, che il giovanissimo Mario va a stanare con l'amore del neofita. Ho detto «determinante» perché l'idea di bellezza, appresa attraverso l'arte figurativa e l'incontro con tanti artisti (da De Chirico a Emilio Vedova), si tradurrà nell'opera del produttore di libri: i quali non sono soltanto pile di fogli rilegati contenenti parole che aspirano ad avere un senso (il che è già tanto) ma devono essere anzitutto cose, cose belle. Se scrivere un romanzo è un'attività spirituale, fare un libro è una discesa nella materia, dall'invisibile al visibile, dove il verbo si fa carne, corpo.
Buona parte delle notizie che Andreose ci dà di sé stesso riguardano, del resto, il proprio corpo: lo scout magro ma forte, la debolezza infantile dovuta alla scarsità di cibo, l'adolescenza fiera, i calzoni corti.
L'età infantile dura ma piena di volti, di voci, di rituali, e poi la curiosità, che è anch'essa qualcosa di fisico, e muove le gambe e i piedi verso quello che attrae e fa crescere. Non c'è un Maestro solo, non un solo mentore: è Venezia il maestro, sono gli incontri, le occasioni, la stima che si accende, dentro cui piano piano si comincia a intravedere una strada, un lavoro, forse un destino.