Nel gennaio del 1890 Joseph Conrad si risolse, dietro consiglio dello zio, Tadeus Bobrowski, a chiedere un aiuto, sotto forma di raccomandazione, a un lontano parente, un cugino della nonna paterna, Alexandre Poradowski, un ex ufficiale da tempo in esilio in Belgio a seguito della fallita insurrezione polacca contro il dominio russo di una ventina d'anni prima. A Bruxelles, dove aveva sposato Marguerite Gachet, una francese tanto bella quanto colta, con all'attivo già un paio di libri pubblicati, e di ottima famiglia, Alexandre era in buoni rapporti con la burocrazia che ruotava intorno al re Leopoldo II, allora impegnato nello sfruttamento sistematico, travestito da missione civilizzatrice, del Centro Africa e Conrad, nell'autunno precedente, era riuscito ad avere un colloquio con il direttore generale della Societé Anonyme Belge pour le Commerce du Haut-Congo, propedeutico al comando di un piroscafo fluviale. L'Africa faceva parte dei suoi sogni infantili e poi adolescenziali, gli spazi vuoti sulle mappe di quel continente riempiti dalla sua fantasia e adesso rinfocolati dai libri di viaggio e dalle esplorazioni di Stanley, Livingstone, Burton... Era, insomma, l'Africa, di gran moda e di gran fascino e Conrad, dopo tre anni di navigazione fra l'Arcipelago Malese, l'Oceano Pacifico e quello Indiano voleva cambiare mari e continenti. A quel primo colloquio però era subentrato il silenzio e lui, che da sei mesi era fisso a Londra e senza prospettive di nuovi imbarchi, mordeva il freno e aveva urgente bisogno di certezze.
Alexandre Poradowski rispose a quella lettera, ma non di suo pugno. Si limitò a firmarla, ma la scrisse sua moglie, Marguerite. La sua salute non era buona, diceva la risposta, ma, da polacco e da parente, lo avrebbe accolto con gioia e si sarebbe messo a disposizione. Conrad ringraziò e si organizzò per andare a trovarlo a Bruxelles. Arrivato nella capitale belga, fece appena in tempo a salutarlo, due giorni prima che morisse. Così, fu Marguerite a prendere in mano la situazione...
Va ricordato che tra Conrad e la vedova Poradowska c'era una differenza di età di nove anni: lui ne ha trentatré, lei quarantadue. Lui la chiama «zia», anzi «cara zia», anche se in realtà è una cugina acquisita; lei, più direttamente, «caro Conrad». Lei è ancora una bella donna, a cui il dolore, aggiunge elementi di pathos, Conrad un vigoroso trentenne al quale i viaggi per mare hanno aggiunto un fascino esotico, romantico e romanzesco ben noto nella sua cerchia familiare. Hanno gusti letterari in comune e un'indole malinconica rafforzata dalle rispettive solitudini. In pratica, sono fatti per intendersi. Marguerite darà a Joseph quell'aiuto per l'impiego africano che suo marito non aveva fatto in tempo ad assicurare: sarà l'inizio di un rapporto soprattutto epistolare che, pur con interruzioni più o meno lunghe, durerà sin quasi la morte di Conrad (1924), un totale, da parte sua, di 110 lettere, a fronte delle sole quattro, in forma di minuta, che di lei ci sono rimaste. Nell'insieme, offrono uno spaccato di rilievo sulla sua genesi di scrittore e, più in generale, sulla sua visione del mondo.
Adesso, finalmente, questa corrispondenza, di cui si conosceva un'edizione tradotta in inglese e quella pubblicata sull'originale in francese (con poche lettere ritradotte dal polacco) viene presentata al pubblico italiano in un'edizione molto ben curata, ulteriore e non secondario tassello, come già detto, alla conoscenza del Conrad uomo e scrittore, ma altresì di una Marguerite donna e scrittrice riportata in piena luce dalla oscurità a cui il tempo l'aveva relegata (Joseph Conrad, Lettere a Marguerite Poradowska, Ronzani editore, pagg. 298, euro 22; trad. Anna Lina Molteni; a cura di Giuseppe Pedicino e Anna Lina Molteni).
Come è noto, la vita sentimentale di Conrad continua a restare in un cono d'ombra che nemmeno i suoi biografi più attenti sono riusciti a illuminare. Nel caso della sua liaison amicale con Marguerite, Giuseppe Pedicino giunge ad affermare che si trattò di qualcosa di più di un semplice rapporto intellettuale. Per suffragare questa tesi, mette insieme più indizi su cui, per quanto non rappresentino una prova, vale la pena investigare.
Il più tenue, francamente, è quello però sottolineato con più convinzione e relativo ad alcune frasi di Conrad, del genere vi penso tutti i giorni, vi amo e vi ammiro sempre di più... Scritte in francese, in un fin de siècle dove la corrispondenza ha ancora un suo rituale e un suo galateo, a opera di un giovane aristocratico polacco che supplisce con la scrittura l'assenza di veri legami frutto di conversazioni, frequentazioni, sguardi, gesti, eccetera, non ci sembra che quelle frasi vadano oltre lo stile di un'epoca.
Più interessanti restano alcuni giudizi a latere e un emblematico vuoto nella corrispondenza stessa. Per i primi bisogna rifarsi a Tadeus Bobrowski, che di Conrad non fu solo il tutore, ma una sorta di guida spirituale e di coscienza critica. A lui, lo scambio epistolare fra il nipote e «la zietta» non piace: lei non è di «primo pelo», come sottolinea con mala grazia, in più è una «bas bleu» e si comporta come «una ragazzina sedicenne e infatuata». Lo dice anche in base alle lettere che, a sua volta, riceve da Marguerite, il che fa capire come nella cerchia polacca familiare e amicale di Conrad quello scambio epistolare non sia sconosciuto. «Civettano» insomma troppo per i suoi gusti ed è dell'idea che sotto questo «gioco» possa esserci «quella cosa assurda che è nata nella testa di uno di voi o forse anche di tutt'e due».
Se Tadeus Bobrowski ci ha visto bene, l'emblematico vuoto nella corrispondenza citato poco prima ha la sua spiegazione. Succede che nel 1895 il rapporto epistolare si interrompe, un silenzio che dura sino al 1900. Ancora due anni prima, Conrad ha dovuto rassicurare Marguerite che un suo viaggio in Ucraina non aveva nessuno scopo matrimoniale e dal tono della sua lettera, «Ho difficoltà a credere che voi parliate seriamente della cosa», lei gli doveva aver fatto una scenata di gelosia per iscritto. Un anno dopo, però, Conrad incontra Jessie Emmeline George, che è molto più giovane di lui e di cui, si tratti o meno di un colpo di fulmine, con Marguerite non fa parola. Il matrimonio è del febbraio 1896...
Va ricordato che comunque l'epistolario Conrad-Poradowska offre spunti che vanno molto al di là del pettegolezzo di natura sentimentale. Per la prima volta, Conrad ha qualcuno con cui parlare di letteratura, «del suo primo libro che sta scrivendo - «Rimpiango ogni minuto che passo lontano dal foglio», «Tutto è ancora un caos, ma, lentamente, gli spettri si trasformano in carne viva» -, dà consigli, informazioni, suggerimenti su quelli che, a sua volta, Marguerite sta scrivendo. In proposito, Conrad non risparmia gli elogi, la «votre plume de magicienne», la vostra magica penna, per dirne soltanto uno, che sfiorano il ditirambo. Va tuttavia sottolineato che Conrad scriveva a una donna, una donna scrittrice che era insieme una parente e un'amica, che le era cara e che, spesso e volentieri, non nascondeva la propria solitudine e la propria infelicità, come si vede dalle risposte di lui: «Perché sareste infelice? Perché esserlo sarebbe buono per voi e dannoso per me?». Più che con giudizi critici, qui abbiamo a che fare con l'affetto e il sentimento verso una persona cara.
Giustamente Pedicino osserva che durante la stesura di La follia di Almayer, Marguerite sta a sua volta scrivendo Marylka, un romanzo imperniato sul difficile rapporto tra genitori e figli, che in quel periodo i due oltre che scriversi si vedono a Parigi, che proprio il legame fra Almayer e sua figlia Nina viene da Conrad modificato in corso d'opera e che, insomma, quello scambio intellettuale si rivela per lui fruttuoso. Anche in seguito Conrad chiederà consigli: «Pensate che si possa far qualcosa di interessante senza una figura femminile?!» le chiede mentre è alle prese con Un avamposto del progresso, la storia di due relitti umani...
Un ultimo appunto riguarda il francese di Conrad, su cui si è molto favoleggiato. Nella sua nota, Anna Lina Molteni rimanda al saggio che René Rapin scrisse come introduzione all'edizione francese delle Lettres.
Era sicuramente il francese di uno straniero che, per sua stessa ammissione, «non conosceva né la grammatica né l'ortografia», scritto di getto, in condizioni spesso di difficoltà, cattiva salute, stanchezza e tuttavia pieno di naturalezza e di scioltezza e con una straordinaria proprietà di linguaggio. Ma era un francese parlato...