
Che cosa sia stato il Settecento e quanto e se Casanova lo abbia incarnato alla perfezione è un po’ il filo conduttore del libro che uno scrittore ungherese, Miklós Szentkuthy, pubblicò alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, quando cioè la Seconda guerra mondiale stava per portare il suo knock-out definitivo a un’epoca che già un ventennio prima era finita al tappeto, ma a cui un arbitro impassibile aveva lasciato la facoltà di rialzarsi barcollante per ancora poche, successive riprese.
Per certi versi, il sentimento che spinse Szentkuthy a scrivere il suo A proposito di Casanova (Adelphi, traduzione di Laura Sgarioto, pagg. 249, euro 20) era simile a quello che aveva spinto l’ormai anziano avventuriero veneziano a raccontare il suo secolo nel momento in cui la Rivoluzione francese ne sanciva irrimediabilmente la scomparsa: una memoria e insieme una descrizione di ciò che era stato, «unica filosofia possibile dei tempi nuovi», chiosava appunto Szentkuthy... Ma forse sarebbe meglio dire l’unica filosofia possibile dei tempi di crisi, quando il presente sta per andare e/o è andato in pezzi e nessuno è in grado di scommettere su cosa sarà il futuro.
Szentkuthy, pseudonimo di Miklós Pfisterer (1908-1988), è uno scrittore ungherese sconosciuto in Italia, ma di grande prestigio nel suo Paese, come ci informa la nota biografica che accompagna il volume. A proposito di Casanova fa parte del Breviario di Sant’Orsola , ovvero di un ciclo più ampio, dieci volumi, dedicato all’Europa e ai suoi travestimenti e definito, sempre nella suddetta nota biografica, «un’opera labirintica e proteiforme», inclassificabile «per forma e contenuti », alla cui base, per quel che se ne può capire, c’è una diaristica descrittiva in grado di coincidere con «una vita intera, con tutti i paesaggi, tutti gli amori, tutti i libri, tutti gli amici, tutte le idee»...
Sotto questo aspetto, il rifarsi a Casanova trova la sua ragion d’essere nell’assoluta identificazione di una vita come scrittura, perché solo a Casanova è riuscito di trasformare la prima in un’opera d’arte, laddove gli avventurieri nel loro raccontarsi soffocano di noia il lettore e le vite spiritualmente ricche di filosofi, poeti e romanzieri brillano per la loro piattezza biografica.
Si dirà che è il Settecento a fare Casanova e in questa
osservazione c’è del vero, anche se bisogna aggiungere che se quel Settecento è pieno di avventurieri e di bari, di spie e di falsi nobili, di giocatori, amatori, poeti di corte, attori, commedianti e ballerini, di Casanova c’è soltanto Casanova: è un prototipo, non una vettura di serie.
Szentkuthy insiste sulla maschera, la scena, la rappresentazione, il palcoscenico come elementi chiave di quel secolo che l’Italia, nella fattispecie Venezia, portò al suo massimo grado, una sorta di identificazione fra il racconto, il narratore e la cornice stessa della storia. Né gli sfugge come quel secolo dei Lumi, della ragione e della scienza fosse al tempo stesso quello delle società segrete, del compasso e della clavicola di Salomone... «È davvero sorprendente che nella seconda metà del Settecento, quando già si è imbellettata la baldracca che sarà innalzata sugli altari delle cattedrali come la dea Ragione, sopravvive ancora potentemente la fede nell’alchimia, nello spiritismo e in ogni sorta di superstizione ». È altresì consapevole che la letteratura in genere «è ancora al di qua dell’estetica, del romanticismo, della “poesia”; un gioco di società, piuttosto, un’improvvisazione, e di solito una specie di arida erudizione filologica – e dunque perfetta per Casanova». Al fondo, in un’epoca dove «i cardinali e le principesse erano tutti letterati appassionati », l’arte era «solo uno strumento di comodità per i signori, niente di più, un lusso ». Eppure, anche se Casanova si muove in quell’epoca come un pesce in un acquario ormai conosciuto a memoria, e quindi compone sonetti, opere filosofiche, trattati diplomatici, lavori di traduzione con la stessa facilità con cui respira, c’è un elemento che lo isola e ne sottolinea la diversità. È sì un uomo di chiostro e se si vuole di corte, un umanista insomma, ma è anche un uomo di porto e di angiporto, di taverna, il che per una letteratura come quella italiana è un’eccezione, segnala uno iato rispetto a un’intellettualità che non conosce e/o disdegna la vita, che ha elaborato un codice artistico tutto proprio e che si vede come una «classe dei colti» a parte e distaccata dal resto della società. È il portato finale di quell’umanesimo che ha preso il posto dei novellieri medievali ancora impregnati di vita e che ha sostituito Dante con Monsignor della Casa, una scissione che continuerà ampliandosi per tutto l’Ottocento e ancora per il secolo successivo, sempre più separando l’arte dalla vita.
Casanova invece nella vita è immerso, con un’amoralità che è tutt’uno con la ricerca del piacere da un lato, con la felicità come «qualcosa di incantevolmente naturale » dall’altro, come osserva Szentkuthy, «evitando così sia la grossolanità patologica del desiderio sia il repugnante moncone nietzschiano dell’“apologia della vita” ». In questo suo vitalismo, anche il denaro assume un valore particolare, diverso da quello che la società settecentesca è invece pronto a concedergli, sia in termini astratti, titoli, investimenti, sia in termini concreti: proprietà terriere, patrimoni, contanti, doti. Casanova paga «con anelli e orologi da taschino, come un carovaniere osserva di sottecchi le dita della gente, i bottoni delle camicie e i diademi», per lui «il valore è l’oggetto favoloso, la rarità ingenua, il solitaire »... Regala, spende e spande, si indebita al tavolo da gioco come al monte dei pegni... E quando non può fare altro, fugge, si eclissa, cambia identità, emigra, riappare...
Interessante, per un mitteleuropeo qual è Szentkuthy, è il rapporto tra Venezia, e dunque Casanova, e l’Oriente, l’Oriente nella sua interezza: «Dopo i Balcani simili a un ghetto in rovina, appaiono per la prima volta Costantinopoli, Smirne, Baghdad il sogno adolescenziale dell’Europa: l’Oriente delle fiabe».
Varrà però la pena di osservare, come si è visto alla mostra Casanova in viaggio a Trieste, che quello dello scrittore veneziano è un Grand Tour fuori dai canoni, dove non è mai il passato, le sue vestigia, a essere in primo piano, ma la vita che pulsa, gli incontri, gli amori: non le rovine di Cipro, ma il vino di Cipro...Infine, in una società dove tutto è sfumato, indefinito, e dove sono in molti a fare della menzogna un’opera d’arte, Casanova fa qualcosa di più e di diverso, ovvero la trasforma in gioia di vivere.