"La guerra all’Occidente si combatte sul passato"

Il sociologo Frank Furedi: "L’orgoglio per la tradizione viene trasformato in senso di vergogna"

"La guerra all’Occidente si combatte sul passato"

Frank Furedi è uno dei più importanti sociologi viventi, i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e a settembre uscirà per Fazi l'edizione italiana del suo ultimo lavoro La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica. Dal 2021 alterna l'attività di studioso a quella di direttore della sede di Bruxelles del think tank ungherese Mcc, lo abbiamo intervistato per il Giornale.

Nel suo ultimo libro sostiene che «sotto i vessilli della cancel culture e del politicamente corretto, è in atto una crociata culturale e morale che punta a riscrivere la memoria storica dell'Occidente», come siamo arrivati a questo punto? Perché l'Occidente è arrivato a odiare se stesso?

«Spesso si dimentica che da tempo ormai il passato è il principale campo di battaglia su cui si combatte la guerra culturale. Uno dei modi principali in cui gli ideologi anti-occidentali hanno cercato di minare i valori europei e il nostro stile di vita è stato quello di demonizzare il passato. Il progetto di trasformare il passato in una storia di vergogna è stato sistematicamente promosso nelle università, nei media e persino in alcune istituzioni educative. Hanno adottato la prospettiva della teleologia del male che afferma che l'orgoglio della società per il passato dovrebbe essere sostituito da un senso di vergogna. In questo modo sono riusciti a inquadrare l'eredità della civiltà occidentale in modo negativo».

Nella volontà non solo di cancellare ma anche di riscrivere il passato vede un progetto politico per cambiare la nostra società anche attraverso il multiculturalismo?

«Il tentativo di cancellare il passato va di pari passo con la demonizzazione del senso di nazionalità e patriottismo. Si sostiene che la coscienza nazionale, ad esempio l'orgoglio di essere italiani, sia troppo esclusiva e che la celebrazione di una cultura nazionale debba lasciare il posto a un mondo multiculturale più diversificato. In effetti, privando le persone del loro patrimonio culturale, il senso di appartenenza nazionale, ad esempio l'identità italiana, perde parte della sua autorità morale. In questo modo, le élite manageriali tecnocratiche sono in grado di portare avanti il loro progetto di istituzionalizzazione del multiculturalismo».

Eppure la sinistra sia americana sia europea sembra aver abbracciato gran parte delle battaglie della cultura woke e della cancel culture, lei nasce con una formazione di sinistra ma negli ultimi anni ha assunto posizioni critiche nei suoi confronti, pensa che oggi la sinistra abbia perso il proprio ruolo storico?

«La sinistra è diventata il partito del managerialismo tecnocratico. Ha abbracciato un progetto di ingegneria sociale dall'alto verso il basso e i suoi leader si sono allontanati così tanto dalla vita e dalle preoccupazioni dei lavoratori. In sostanza, hanno abbandonato/tradito il loro elettorato tradizionale».

Il capitolo finale del suo libro si intitola «L'esclusione dei giovani dall'eredità del passato» e parla della «guerra combattuta nelle aule scolastiche», perché la scuola oggi ha perso la funzione pedagogica che aveva un tempo?

«Le scuole in Europa hanno adottato un programma scolastico basato su una pedagogia orientata alla psicologia. Questa pedagogia svaluta l'apprendimento accademico e disciplinare. È ostile a un programma scolastico classico che promuove la storia, la filosofia, il latino ecc., con la motivazione che queste materie siano troppo difficili e irrilevanti. Eppure sono proprio queste materie che aiutano gli studenti a pensare in modo astratto e analitico. Invece di stimolare gli studenti e metterli alla prova intellettualmente, le scuole sono spesso più interessate a far sentire i bambini felici e soddisfatti di sé stessi. In questo modo il ruolo dell'insegnante come specialista di una disciplina accademica viene sostituito, trasformando gli insegnanti in terapeuti dilettanti».

Non pensa ciò sia dovuto alla perdita del concetto di comunità e a una società sempre più individualista?

«Il passaggio alla cultura terapeutica è motivato dal desiderio di trovare un senso alla vita delle persone. La perdita di un tessuto di significato ha molte cause, la più importante delle quali è l'erosione dei legami sociali e culturali che hanno unito le persone tra loro. Minando il senso di continuità culturale della società, la guerra contro il passato ha contribuito a questo. Per me il problema principale non è tanto l'individualismo quanto la frammentazione della comunità e della società. Quando le persone vivono in quartieri senza vicini, possono diventare emotivamente isolate e attratte dalla soluzione rapida delle terapie».

Il predominio dell'individuo sulla comunità è una delle conseguenze del modello liberale?

«Paradossalmente, il problema che affrontiamo non è il predominio dell'individuo sulla comunità ma l'erosione della vita comunitaria che mina il senso di autonomia dell'individuo. Viviamo in un mondo in cui comunità deboli producono individui deboli. In questo contesto, l'individualità assume una forma insolitamente caricaturale. Di conseguenza, una forma matura di coscienza individuale lascia il posto a un'ossessione immatura per l'identità. Questi sviluppi sono il risultato di una svolta culturale contro l'autorità della nazione e le tradizioni ad essa associate».

Anni fa scrisse che «è necessario ricreare una sfera pubblica in cui gli intellettuali e il pubblico possano tornare a parlarsi», pensa che abbia ancora senso il ruolo dell'intellettuale?

«Forse no. Ma il futuro delle nostre società richiede che innalziamo gli standard della discussione e del dibattito nella società. In particolare, abbiamo bisogno di intellettuali capaci di dialogare con le persone per aiutarle a trovare la loro voce. A volte penso che dovremmo impegnarci in un progetto di Gramsci al contrario. Per farlo, dobbiamo creare un dialogo tra intellettuali e cittadini con l'obiettivo di collaborare alla costruzione di una controcultura in grado di sfidare le istituzioni culturali dominanti. A meno che non mi sbagli, in Italia la destra ha vinto la battaglia politica ma non ancora quella culturale. Per vincere la guerra culturale servono intellettuali più seri dalla nostra parte».

Un'ultima domanda: se dovesse dare un consiglio al governo italiano su cosa fare in ambito culturale cosa consiglierebbe?

«Il governo deve dedicare molte energie alla trasformazione dei programmi scolastici e incoraggiare i giovani ad aspirare a diventare intellettualmente indipendenti. Il programma scolastico italiano è stato progettato da ingegneri curriculari influenzati dal pensiero pedagogico globalista.

A meno che le scuole non diventino istituzioni dedicate all'educazione dei bambini alla libertà, i giovani saranno influenzati dalle élite tecnocratiche anti-tradizionaliste. Qualcuno nel governo italiano dovrebbe esaminare il modo in cui gli insegnanti vengono formati per vedere se non esiste un modo migliore per incoraggiarli a contribuire alla rinascita della cultura italiana».

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