
Luigi Einaudi non è un'icona da cartolina. È un intellettuale scomodo, uno di quelli che non si fidano delle soluzioni facili e degli slogan ripetuti a memoria. Il libro curato da Domenico Maria Bruni Luigi Einaudi e le istituzioni (Effigi Edizioni, pagg. 256, euro 18) è un esercizio di verità: mette in luce il senso profondo del pensiero einaudiano, fatto di rigore, umiltà e soprattutto dubbio. La sua non è una teoria del potere, ma una pedagogia del limite. Che poi per Einaudi era il senso profondo del liberalismo. In un tempo in cui l'opinione pubblica chiede certezze granitiche, Einaudi ci ricorda che il buon governo nasce dal confronto, dalla discussione e dalla lentezza.
Einaudi è liberale perché non crede nei salvatori, né nei tecnici che si autoproclamano sacerdoti della razionalità. Li chiama «dottrinari» e «periti», e li mette sul banco degli imputati. L'economista piemontese sa che ogni problema tecnico ha risvolti politici, morali e storici. Sa che la realtà è fatta di uomini imperfetti che si muovono dentro istituzioni imperfette. Per questo non cerca il sistema perfetto, ma il
compromesso virtuoso. La sua visione delle istituzioni non è sacrale, ma artigianale: strumenti al servizio della libertà, non totem da venerare.
Il punto più alto del libro è questo: l'umanesimo liberale di Einaudi. Un umanesimo pragmatico, non retorico, che mette al centro la persona senza idealizzarla. Per Einaudi la società liberale è un equilibrio fragile, una costruzione che richiede lavoro quotidiano, vigilanza, educazione. Ecco perché difende il pluralismo, l'associazionismo, la stampa libera, le autonomie locali. Non per romanticismo, ma perché sa che senza contrappesi il potere marcisce. È il liberalismo dei «corpi intermedi», del confronto tra diversità, della responsabilità che nasce dal basso. Quasi come una concorrenza tra istituzioni, per evitare monopoli.
C'è una bellezza in questa architettura di pensiero: Einaudi non vuole convincere, vuole far pensare. Non vuole comandare, vuole costruire una convivenza. Un presidente che non governava con gli ordini, ma con gli argini. Un maestro che sapeva che
la libertà è fatica, non privilegio.
Oggi, in un tempo che affida ogni crisi a qualche «esperto», leggere Einaudi è un atto rivoluzionario. Perché ci costringe a tornare umani.