Leggi il settimanale

Il mondo nuovo di Gobetti? Una rivoluzione molto poco liberale

Paolo Di Paolo esalta il personaggio ma ne equivoca il pensiero

Il mondo nuovo di Gobetti? Una rivoluzione molto poco liberale

Lo scrittore Paolo Di Paolo dedica a Piero Gobetti (il prossimo 15 febbraio sarà un secolo dalla morte del giovane intellettuale torinese, aggredito e percosso dai fascisti) un saggio che ne esalta la figura (Un mondo nuovo tutti i giorni, Solferino, pagg. 154, euro 16,50). Il ritratto che Di Paolo fa di Gobetti è certo suggestivo. «Penso a quella di Gobetti come a una giovinezza palpitante e insieme imprigionata. C'è una corteccia dura, una corazza sotto cui freme qualcosa di più caldo di ciò che si vuole lasciar vedere agli altri». Ma se si esamina il pensiero politico di Gobetti non si può non rilevare che esso ha assai poco a che fare con il liberalismo, di cui secondo alcuni (Norberto Bobbio in primo luogo) egli è stato un eminente teorico. Il giovane intellettuale torinese salutò con grande entusiasmo la rivoluzione bolscevica in Russia. Certo, egli diceva, l'esperimento socialista in Russia era fallito. Ma, aggiungeva subito, «la rivoluzione russa non è solo nell'esperimento socialista. Là si gettano le basi di uno Stato nuovo. Lenin e Trotzki non sono solo dei bolscevichi (...), sono gli uomini d'azione che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima». E Gobetti concludeva con un apprezzamento nettamente positivo: «L'opera di Lenin e di Trotzki rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un'affermazione e un'esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo. È morto lo zarismo e la mentalità zarista. La Russia si eleva al livello della civiltà dei popoli occidentali».

Sono affermazioni singolari, queste di Gobetti, perché esse lasciano intravvedere una concezione del liberalismo affatto estranea alla tradizione del pensiero liberale occidentale. Il quale, con la parola «liberalismo», ha sempre inteso, in primo luogo ed essenzialmente, la teoria e la prassi della protezione giuridica, attraverso lo Stato costituzionale, delle libertà individuali. Questa accezione del liberalismo sembra invece non trovare posto nel pensiero di Gobetti.

Tutto questo significa forse che Gobetti, da un punto di vista strettamente dottrinale, si fosse convertito al marxismo e al comunismo? Certamente no, per il semplice motivo che per lui la civiltà capitalistica non era affatto avviata al tramonto, in quanto essa era la civiltà del risparmio, delle intraprese che per vivere hanno bisogno di un capitale mobile, e in quanto tale essa mostrava una grande vitalità in tutta Europa, negli Stati Uniti e nell'Impero britannico. Senonché, fatti questi riconoscimenti alla civiltà capitalistica, Gobetti affermava che il tramonto del capitalismo, previsto e predicato da Marx, era «un mito utilissimo, una delle più forti molle della storia moderna». E questo perché, secondo Gobetti, i capitalisti ormai non erano più in grado di adempiere la loro funzione di risparmiatori e di imprenditori; ed erano gli operai che, attraverso la loro organizzazione autonoma, attraverso i Consigli, potevano sostituirsi agli industriali e salvare la civiltà capitalistica. Per Gobetti, insomma, la classe operaia era l'unica classe capace di preservare il sistema borghese, sostituendosi alla borghesia. Per questo motivo la classe operaia era la classe decisiva del mondo moderno, e meritava di essere appoggiata nella sua lotta, anche a costo di pagare lo scotto di un periodo di «dittatura del proletariato». Diceva infatti Gobetti: «Certo nel mondo moderno la coscienza di produttori è stata conquistata prima dagli industriali che dagli operai. E il valore rivoluzionario degli operai è nella loro possibilità di essere più vigorosamente borghesi (come produttori), oggi che molti industriali più non sanno adempiere la loro funzione di risparmiatori e di imprenditori». Di qui la grande simpatia di Gobetti per Antonio Gramsci, e la grande simpatia di Gramsci per Gobetti, che egli invitò a collaborare a L'ordine nuovo.

Il pensiero di Gobetti appare del tutto immerso dentro il mito della «rivoluzione», con fortissimi influssi soreliani. Di qui la sua svalutazione, anzi la sua scomunica del socialismo riformista (cioè, poi, del socialismo liberale). Il suo giudizio su Turati colpisce per la sua durezza, e direi quasi per la sua spietatezza. Dopo aver affermato, infatti, nel 1922, su La rivoluzione liberale, che la distinzione fra «programma minimo» e «programma massimo» altro non era che un equivoco della nostra incultura politica, di cui Turati era «uno dei rappresentanti più ingenui», poiché il programma minimo non poteva alimentare la lotta politica se non mediocremente, sicché un partito di popolo non poteva avere che un programma massimo, una concezione della vita e della realtà elaborata come mito suscitatore di azione dopo aver affermato tutto ciò, Gobetti aggiungeva: «In questo senso Turati è forse il più formidabile diseducatore dell'Italia moderna.

Egli ha perennemente agito senza assumere la responsabilità della sua azione e ha dato ai proletari che difendeva figura e carattere di mendicanti impedendo loro che assurgessero a personalità di lottatori». Un giudizio, questo, che poteva essere sottoscritto da Gramsci, ma che nulla aveva a che fare con il liberalismo.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica