Sulle orme de "Il fuggitivo" che scappò dai campi inglesi

Carlo Pizzati racconta le vicende di Ottone Menato, ufficiale che durante la Seconda guerra mondiale venne internato a Yol

Sulle orme de "Il fuggitivo" che scappò dai campi inglesi

Il fuggitivo, di Carlo Pizzati (Neri Pozza, 315 pagine, 21 euro), è una storia italiana, di un'Italia però condannata dalla storia. Stiamo parlando dell'Italia fascista, di cui quotidianamente ci viene rammentato che potrebbe tornare o che non se n'è mai andata, ma contemporaneamente si tende a svilirla perché di cartapesta e quindi posticcia, culturalmente inesistente quanto ideologicamente inconsistente, uno strato di vernice, nera, naturalmente, sotto il quale però l'Italia antifascista, sana, virtuosa e repubblicana ante-litteram ha pazientemente lavorato per tornare vittoriosa in superficie. Crociana invasione di un popolo straniero e misterioso, gli Hyksos che apparirono e scomparvero senza lasciare traccia dopo un ventennio in cui si accamparono lungo lo Stivale; espressione reazionaria del grande capitale; fenomeno di risulta piccolo-borghese degli sbandati della Grande guerra, i demi-soldes che dalle trincee non si rassegnavano a tornare dietro il bancone di un negozio o il tavolo di una scrivania, gran parte delle letture e/o interpretazioni del fascismo fatica a scrollarsi di dosso l'immagine consolatoria che i fascisti non fossero gli italiani, ma qualcun altro

Il problema è che, come nel caso dell'autore del libro, ciascuno di noi ha avuto in famiglia un nonno, un padre, uno zio che non solo all'epoca fu fascista, ma che lo fu senza alcuna somiglianza con la caratterizzazione e insieme la caricatura morale, meglio, moralistica, che a essa si è accompagnata dalla sua caduta in poi, con l'impennata, a partire dagli anni Sessanta, di una damnatio memoriae che ne faceva il male assoluto a fronte di un bellicoso antifascismo i cui quarti di nobiltà potevano essere eticamente nobili, ma storicamente erano discutibili. In sostanza, quel nonno, quel padre, quello zio risultava nella frequentazione quotidiana una persona per bene e non l'incarnazione del male.

Si dirà che c'è anche la banalità del male, di harendtiana memoria, ma si capisce che con questa logica non si va da nessuna parte e ogni storia nazionale, democratica o totalitaria che sia, rischia di essere seppellita dalle proprie colpe o dai propri sentimenti di colpa. Più semplicemente, se quel nonno, padre o zio non furono Eichmann, si ritorna al punto di partenza: se loro erano fascisti come potevano essere per bene? Ammettere che una cosa non esclude l'altra, potrebbe essere un primo passo verso una lettura non manichea del nostro passato.

Carlo Pizzati è un giornalista e studioso oggi sessantenne che chi scrive ricorda di aver incrociato una quarantina d'anni fa, all'Europeo, nelle vesti di giovane free lance. Attualmente vive in India, ha insegnato all'estero all'università, collabora per i quotidiani del Gruppo Gedi, fa parte di quella generazione post-sessantotto genericamente di sinistra, internazionalista, sensibile alle tematiche dell'ambiente e dei diritti civili. Il suo vivere ormai da anni in India, che è uno straordinario impasto di modernità e di tradizione, gli permette di avere un occhio più ecologicamente disincantato rispetto a quello del progressismo militante di marca occidentale.

Il fuggitivo che dà il titolo al libro è Ottone Menato, lo zio, meglio, il prozio, di Pizzati, il fratello di sua nonna, anno di nascita 1909. La Seconda guerra mondiale lo trova in Africa, dove è arrivato dopo la conquista dell'Etiopia, e lo trasforma da dipendente delle aziende agricole della Marzotto in Libia in ufficiale degli alpini. Nel dicembre del 1940, durante la sanguinosa battaglia di Nibeiwa, in Egitto, viene ferito e catturato dagli inglesi. Ritornerà in patria solo sei anni dopo, sei anni in campi di prigionia intervallati da evasioni.

La prima è una rocambolesca fuga attraverso il deserto del Sinai che si conclude nello Yemen, un po' come era capitato ad Amedeo Guillet, il leggendario comandante diavolo delle bande Amara a cavallo impegnate nella guerriglia anti-inglese. Catturato, Menato viene trasferito nei più lontani campi britannici allestiti in India. Il primo è a Bangalalore, da cui fugge per essere riacciuffato due settimane dopo e a quattrocento chilometri di distanza. Il secondo è a Yol, alle pendici dell'Himalaya, da cui ancora una volta evade e anche questa volta finisce per essere catturato. Del resto, come altri ufficiali, Ottone Menato fa quello che un prigioniero di guerra deve fare: anche questo infatti è un modo di combattere il nemico. Nel giugno del 1943, un giornale australiano titolerà sarcasticamente: «I prigionieri italiani stanno sempre scappando. Ma poi tornano sempre. Sono stati catturati tutti». Andarsene in giro per l'Himalaya, va da sé, non è una semplice passeggiata.

Fra il 25 luglio e l'otto settembre, Menato affronta come tutti gli altri suoi commilitoni prigionieri il dilemma connesso alla caduta del fascismo prima, al cambio di alleanze dopo. Gli inglesi manovrano per approfondire a proprio vantaggio il divario fra chi vorrebbe restare fedele al fascismo, chi ritiene giusto pensare che la sua caduta porti con sé la fine di ogni fedeltà al regime, chi si aggrappa al giuramento monarchico come continuità fra ciò che è stato e ciò che sarà. Menato si schiera con gli irriducibili, i non collaborazionisti del Campo 25, allestito ex novo per l'occasione. È finito nel campo da fascista, pensa, ne uscirà, se e quando Dio vorrà, da fascista. E così sarà, nel 1946.

Le vicende indiane di Ottone Menato vengono ripercorse da Carlo Pizzati in un viaggio dove le tracce del passato coloniale si fanno sempre più evanescenti e l'ansia modernizzatrice del Paese sempre più evidente. L'autore ama l'India, è ottimista nei suoi confronti e pazienza se la burocrazia indiana, la sua indolente pedanteria, si diverte a intralciarne le ricerche. Per certi versi è il retaggio di una storia millenaria.

Tornato finalmente in Italia, a Valdagno, per l'esattezza, invalido di guerra e congedato con il grado di capitano Ruolo d'Onore, Ottone Menato rientrerà in Marzotto, diventerà capo dell'ufficio pubblicità, si sposerà, farà del giornalismo, metterà al mondo due figli, scriverà, vent'anni dopo i fatti, la storia romanzata della sua guerra e della sua prigionia: Latin lover è il titolo. Esce nel 1968 e, vista l'epoca, il meno che si possa dire è che è in controtendenza rispetto allo spirito del tempo...

Morirà nel 1991, a ottantanove anni ed è nel cimitero dove riposa che il nipote torna per salutarlo ancora una volta, l'unico luogo in fondo dove ogni differenza si annulla e si pareggia e pazienza se Pizzati attribuisce, ricordandoli da vivi, A livella del principe de Curtis al più borghese, meglio, piccolo borghese, Eduardo de Filippo.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica