La sfida è lanciata. Liberilibri pubblica la prima collana, Le nuvole, apertamente realizzata con l'Intelligenza artificiale. Nascostamente, sarebbe troppo facile, lo fanno già in molti, e truffaldino, lo ammettono solo se beccati con le dita nella marmellata.
Le motivazioni sono spiegate dall'editore stesso: "Questa collana nasce come gesto di realismo. Non per celebrare una moda tecnologica, ma per mettere alla prova le opportunità e i limiti di una nuova forma di possibilità creativa. Crediamo che l'Ai, se usata con sapienza e cultura, non sia un surrogato dell'autore umano ma un ampliamento degli orizzonti del possibile".
Il cuore dell'esperimento è affidare alla Intelligenza artificiale un tema di stretta attualità, da trattarsi in chiave liberale, talvolta politicamente scorretta. È proprio il caso di Il diritto di odiare? Una piccola inchiesta. La tesi: il reato di incitare all'odio con le parole è uno strumento per minare alla base la libertà d'espressione. Dov'è la novità, direte voi? L'Intelligenza artificiale riassume il dibattito per sommi capi, ne dà una interpretazione "scorretta", fornisce argomentazioni chiare e documentate. Una lettura sicuramente piacevole di un testo diligente. Il salto di qualità è il capitolo finale dove viene preso in esame l'omicidio dell'attivista Charlie Kirk, ucciso da un assassino odiatore dei discorsi d'odio. Il paradosso invera le precedenti pagine, e le carica di un'urgenza che va ben oltre il compito diligente.
L'Intelligenza artificiale, guidata dall'uomo, tocca i punti che vanno toccati. "L'odio ci viene detto è accettabile soltanto se si traveste da indignazione legittima, se si giustifica invocando un torto subito, se si converte in attivismo per una causa universalmente riconosciuta come nobile. In questi casi, l'odio riceve una sorta di legittimazione morale, diventa comprensibile e dunque degno di tolleranza". L'ipocrisia dei buoni è messa al suo posto: la pattumiera morale. E ancora: "Kirk sosteneva che le opinioni possono essere offensive, ma non sono crimini. Questo principio, tanto elementare quanto dimenticato, è la garanzia minima contro l'invasione della coscienza da parte di uno Stato moralizzatore (e oggi anche della cosiddetta società civile) che pretende di sorvegliare non solo le condotte, ma pure le emozioni. Se riconosciamo la libertà di parola come un pilastro della convivenza civile, dobbiamo ammettere che essa comprende anche la facoltà di esprimere sentimenti ripugnanti, sgradevoli, impopolari". Chiaro anche l'autogol tipico del politicamente corretto: "Il passaggio decisivo che segna la crisi della concezione classica dei diritti è la loro trasformazione da prerogative individuali a rivendicazioni collettive. Nascono così i cosiddetti target rights, diritti ritagliati su misura per categorie particolari: minoranze etniche, sessuali, culturali. In questo schema, la uguaglianza si capovolge in privilegio. Alcuni ottengono riconoscimento e protezione non perché individui liberi, ma perché membri di un gruppo che riesce a imporsi nello spazio pubblico. L'individuo viene assorbito in identità collettive che finiscono per soffocare la sua autonomia. Sotto questa luce, la figura di Charlie Kirk appare ancora più rilevante. Con la sua ostinata difesa del diritto a dire cose oltraggiose, egli non rivendicava il primato della brutalità retorica, ma rimetteva al centro una gerarchia indispensabile. Dire non è fare. Criticare non è colpire. Irritare non è ferire. Quando la democrazia confonde la parola con l'atto, finisce per scivolare verso il paternalismo censorio, giustificato dal pretesto della protezione". La morte di Kirk dovrebbe servirci da monito. Una parola non uccide. Una fucilata, sì.
Eppure abbiamo visto anche una indignazione diretta non verso l'atto omicida ma verso le parole dette o scritte da Kirk "che dovevano indurci a capire il gesto terribile". Come se il vero scandalo non fosse il sangue versato, ma la (supposta) violenza verbale di Kirk.