L'outsider McCarthy tra conservatori e credenti. E lontano dai radical chic

Abbiamo chiesto a traduttori, critici e scrittori di definire la sua visione. Sempre provocatoria

L'outsider McCarthy tra conservatori e credenti. E lontano dai radical chic

A cercare la violenza, nelle pagine di Cormac McCarthy, morto l'altroieri a 89 anni, se ne trova quanta se ne vuole. Violenza e degrado, scenari cupi e disperazione, nessuna salvezza. Era lui il primo a non credere nella possibilità della pacifica convivenza tra esseri umani. In una delle sue rare interviste (al New York Times), una trentina d'anni fa, disse che «Non esiste vita senza spargimento di sangue. Credo che la convinzione che la specie possa essere migliorata, che tutti possano vivere in armonia, è un'idea davvero pericolosa».

Della grandezza letteraria di Cormac McCarthy ha scritto ieri su queste pagine Davide Brullo. Politicamente, lo scrittore cresciuto nel Tennessee e infine residente nel New Mexico, non è mai stato facile da etichettare. La definizione di outsider è quella che gli calza di più, sia nella condotta privata sia in quella pubblica. Gli piacevano le persone che vivevano pericolosamente. Non si faceva vedere in giro, tanto meno nei circoli letterari. Non era un intellettuale impegnato, se non in progetti scientifici. Non andava neanche a votare, anzi, diceva «I poeti non dovrebbero votare». Perché già esprimono, attraverso la loro scrittura, le loro preferenze.

Chi conosce bene il suo linguaggio narrativo è lo scrittore Raul Montanari, che ha tradotto quattro dei suoi libri, fra cui quel Meridiano di sangue, uscito per Einaudi nel 1997, che molti critici considerano un capolavoro. «In Italia McCarthy è arrivato con trent'anni di ritardo. Fu bocciato da Vittorini nel 1965 e perché troppo letterario. Lo voleva pubblicare Oreste del Buono alla Mondadori, ma di nuovo non se ne fece nulla. Nel frattempo sono passati trent'anni. La critica si è occupata di lui non perché il pubblico lo amasse (il pubblico lo conosceva poco), ma perché si creò una corrente di suoi estimatori che lo consideravano un classico. Prima fu addirittura confinato nel genere western, che in America andava molto, ma il suo stile era anomalo. Radicale, non classificabile. E non progressista». In che senso? «La sua è una rivisitazione del mito americano della conquista, un'esposizione della coscienza sporca di una nazione. Senonché, c'è anche dell'ambiguità. Lui rappresenta dall'interno una violenza parossistica, ma lasciando al lettore il giudizio morale». Ci sono innumerevoli riferimenti alla Bibbia, soprattutto al Vecchio Testamento... «Sì, è una violenza simile. Anche sopraffattoria. Il realismo delle descrizioni. Eppure i suoi personaggi, accattoni compresi, parlano un linguaggio altissimo, non come la gente vera. Un effetto irrealistico». Mc Carthy quanto era vicino allo spirito destrorso dell'America del West, con la sua epopea? «Io credo che fosse, più che un conservatore, un reazionario. Per un conservatore il presente è il prodotto di un passato, di una tradizione. Lui è come se andasse alle spalle del passato, a scoperchiare l'orrore che è stata la cultura di un Dio oppressivo. Perciò intellettualmente mi sembra un compagno di viaggio scomodo anche per quelli di destra».

«Alla base degli interrogativi di uno dei massimi scrittori contemporanei c'è la questione: Dio esiste o no?» dice lo scrittore Luca Doninelli, autore qualche anno fa di un saggio sul concetto di Giustizia in Cormac McCarthy: «La materia della creazione. Cormac McCarthy e la giustizia» in Giustizia e Letteratura, edito da Vita e pensiero, editore dell'Università Cattolica. «È una domanda che si è posto in modo molto originale un altro grande scrittore, David Foster Wallace. E contemporaneamente in lui c'è un enorme lavoro sulla natura umana. Prende il Male e lo spinge all'estremo, come nel caso del giudice albino in Meridiano di sangue. Invece il giudice di Cavalli selvaggi è clemente con un ragazzo che potrebbe condannare a morte. In lui c'è come un senso primigenio della giustizia, come se fosse inscritta nell'uomo. L'idea del bene non è una nostra decisione. I miracoli bisogna decidere di non guardarli, dice McCarthy. È lo stesso motivo per cui un personaggio di Non è un paese per vecchi scolpisce uno straordinario abbeveratoio di pietra che nel tempo resisterà a tutto. Per farlo, bisogna avere in cuore una grande promessa». Politicamente, come lo collocherebbe? «Si è distolto dall'ambiente letterario e radical chic del suo tempo. Il giro del New Yorker, per dire, quella cosa lì, quel demi monde. Era più attivo nella comunità locale, frequentava gli scienziati dell'università. Forse era credente». In effetti negli ultimi lavori, ci sono riferimenti spirituali alla Cristianità. E se forse in fondo in fondo non fosse così isolato e misantropo come è stato spesso descritto?

Lo chiediamo a Tullio Avoledo, uno scrittore italiano che negli anni ha intrattenuto una fitta corrispondenza con molti degli autori anglosassoni più noti nel mondo, da Robert Ludlum, a John Le Carré, a Martin Amis. Gli chiediamo se l'abbia mai contattato. «Per anni non l'ho fatto, perché nutrivo verso di lui, come verso molti altri (per esempio Don DeLillo), un timore reverenziale. Ma lo avevo letto con molta attenzione, anche in lingua originale. Ha rivoluzionato la narrativa western, popolarissima in America. Ma leggere McCarthy per me è un'esperienza simile a quella che si può provare nel leggere la Bibbia di Re Giacomo, dove ogni termine diventa un'evocazione poetica di paura e bellezza. Insomma, essendo molti anni che non pubblicava, qualche mese fa mi sono deciso a scrivergli per dirgli quanto La strada avesse influenzato il mio modo di sentirmi padre. E poi fra le altre cose gli ho chiesto se ci fosse qualcosa di suo in uscita. Ho mandato la lettera alla biblioteca della cittadina in cui viveva. Poco dopo mi è tornata indietro. Non avevano fatto in tempo a consegnargliela, era già troppo malato. Ma pochi giorni dopo sono usciti i suoi ultimi due libri. Insomma, è come se avessi avuto un presagio». Chiediamo anche a lui se e come sia possibile collocare McCarthy in un contesto ideologico.

«In un periodo come il nostro, in cui schierarsi diventa pericoloso, tanto che molti si rifugiano nella comfort zone del buonismo di sinistra, credo in realtà non ci sia nessuno meno divisivo di lui».

In effetti, abbiamo appena perso un grande scrittore che nessuno potrà tirare dalla sua parte, anche se aveva dimostrato chiaramente quanto poco gli importasse appartenere a una qualsiasi élite culturale.

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