Alla c. a. della «Stanza di Feltri».
Non voglio fare come l'Angelo Bonelli di turno, o quelli come lui, che, quando non hanno temporanei vuoti di memoria (ad esempio, come per la questione Barbara Floridia/Lamberto Sechi), ad ogni piè sospinto chiedono le dimissioni di qualcuno, ma la cosa che riguarda il Procuratore Gratteri meriterebbe un poco di attenzione in più, sia da parte di tutti coloro che leggono, o commentano, le notizie riportate dai quotidiani, sia da parte di coloro che - invece - vedono soltanto i programmi televisivi. Un importante magistrato, Capo della Procura di
Napoli, il quale - dopo aver avuto un proprio spazio televisivo e dopo avere assunto, in vista del referendum, l'incarico di front-man del Comitato del No alla riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere tra Pubblico Ministero e Giudice (e già su questo si potrebbe discutere) - partecipa ad un'altra trasmissione televisiva e legge, con grande sicurezza - che si potrebbe forse definire sicumera - un testo riguardante l'argomento della separazione delle carriere, ma che, però, è assolutamente falso. Senza chiedersi se questa, eufemisticamente,
superficialità sia il normale «modus operandi» nello svolgimento dell'attività istituzionale, ci si può domandare se il Capo dello Stato, che è anche il Capo del Csm non abbia nulla da dire. E perché lo stesso Csm, sempre pronto ad attaccare chi getta discredito sulla magistratura, è assolutamente silente in merito?
Con i migliori saluti.
Franco Squillario
Caro Franco,
hai perfettamente ragione: qui non siamo davanti a una semplice gaffe televisiva, ma a un fatto che riguarda direttamente la credibilità della magistratura italiana. Il Procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, non è l'ultimo arrivato né un passante invitato a un talk-show per fare colore. Egli è uno dei magistrati più esposti mediaticamente del Paese, oltre che un simbolo autoeletto o meno di un certo modo di intendere il potere giudiziario. Ebbene, un uomo nelle sue funzioni non può permettersi di leggere in diretta televisiva nazionale un testo falso, attribuendolo a un altro magistrato, per sostenere una posizione politica sul referendum riguardante la separazione delle carriere. Non può, punto. Perché non è un opinionista, non è un tribuno, non è un politico: rappresenta lo Stato e si esprime o dovrebbe farlo con il peso e il rigore che il suo ruolo comporta. Che cosa abbiamo invece visto? Una scena che definire sconcertante è poco: un Procuratore della Repubblica che, con impressionante sicurezza, cita parole mai pronunciate da un collega, un collega defunto
che non può ribellarsi affermando non l'ho mai detto, trasformando così un dibattito delicatissimo in un teatrino da bar sport. È stato un episodio grave, gravissimo, che qualunque Paese serio avrebbe analizzato in tempo reale. Qui, invece, silenzio. Perché? Per un rispetto reverenziale verso certi personaggi. Il rispetto è doveroso, sia chiaro. La riverenza, invece, no.
E qui tocchiamo il vero nodo. Perché nessuno si è indignato? Perché nessuno ha condannato questa leggerezza? Perché i giornali di sinistra ci hanno messo subito la toppa? Perché nessuno è intervenuto con una sola sillaba?
Perché quando un politico sbaglia o anche solo respira assistiamo a una gara a chi invoca per primo le dimissioni, mentre quando inciampa un magistrato si cala immediatamente il sipario? La risposta, ahimè, è semplice: la magistratura italiana è da trent'anni abituata a non rendere conto a nessuno. Quando sbaglia, minimizza. Quando fa danni, rimuove. Quando travisa, pretende pure l'applauso. E quando qualcuno osa criticarla, ecco partire la litania sul delegittimare la giustizia. Ma permettimi: chi delegittima la giustizia più di un Procuratore
che cita falsità per sostenere una battaglia politica mascherata da battaglia etica? Tu mi chiedi se il Csm non dovrebbe intervenire. Certo che dovrebbe. Anzi, avrebbe già dovuto. Il suo mutismo è imbarazzante e sospetto. Ed è la prova vivente di quanto sia urgente, anzi indispensabile, mettere fine alla commistione patologica tra Pm e giudici. La separazione delle carriere è un principio di civiltà, non un capriccio. Ed è proprio l'episodio Gratteri che lo dimostra: quando il magistrato si sente attivista, paladino, tuttologo, opinionista, finiamo nel caos. Questa vicenda non passerà alla storia per una semplice svista.
Passerà, o almeno dovrebbe, come la dimostrazione plastica di un sistema che non accetta limiti, non sopporta critiche e non riconosce responsabilità. E questo è infinitamente più pericoloso di qualsiasi referendum spacciato per attacco alla magistratura.