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Mesiano, il giudice che già trasferito si è tenuto la causa

Milano «Mi dispiace ma non parlo. Tutto quello che avevo da dire l’ho scritto nella sentenza». Alle cinque di ieri pomeriggio, il giudice del caso Mondadori risponde così - cortese ma fermo - alle telefonate dei cronisti. Trovarlo, anche di domenica pomeriggio, non è difficile perché ha il nome e l’indirizzo di casa sull’elenco del telefono: e già questo la dice lunga sul fatto che non siamo davanti a un vip della giustizia, ad un magistrato abituato - per capacità, ambizione, o carattere - alla ribalta professionale o mediatica.
Raimondo Mesiano era davanti alla prima causa importante della sua vita. E non si è tirato indietro: anzi, ha voluto restare titolare del fascicolo anche se era già stato trasferito alla Corte d’appello, e avrebbe potuto passare la patata bollente ad un altro giudice. Aveva già lasciato la sua stanza al sesto piano, aveva già mollato gli altri fascicoli ad un collega. Ma la causa Mondadori se l’era portata dietro.
I cronisti lo cercavano da settimane nei meandri del palazzo, lui non rispondeva al telefono. Spiazzando tutti, ha depositato la decisione alle dieci di un sabato mattina, convincendo chissà come un cancelliere a farsi trovare in ufficio. Qualcuno - il giudice o un cancelliere - con grafia lievemente aggressiva ha scritto sull’originale: «depositata e resa pubblica». Una postilla inconsueta, come a rivendicare il diritto della sentenza a diventare piombo per i giornali.
Inconsueto, d’altronde, il giudice Mesiano lo è anche per altri aspetti. Cinquantasette anni, nato a Reggio Calabria, in magistratura dal 1980, tra gli avvocati civilisti di Milano è noto per la sua statura fuori dal comune, per i suoi maglioni non sempre impeccabili, per la sua abitudine di fumare disinvoltamente durante le udienze e per la sua capacità di trangugiare - sempre durante le udienze - quantità straordinarie di acqua minerale frizzante. Niente di grave, come si vede, piccoli tratti distintivi che ne hanno fatto un personaggio che non passa inosservato.
A Milano, Mesiano si è sempre occupato solo e soltanto di giustizia civile, cambiando spesso sezione ed approdando infine alla decima sezione, quella che si occupa di risarcimenti danni. È in questa veste che la lotteria assolutamente casuale che regola le assegnazioni dei fascicoli ha fatto approdare sul suo tavolo la causa intentata dalla Cir di De Benedetti contro la Fininvest. Il meccanismo automatico non prevede eccezioni: per la legge le richieste di danni sono tutte uguali, chi litiga con l’inquilino di sopra e chi chiede un miliardo di risarcimento. E vengono decise tutte da un solo giudice, qualunque sia l’importo.
Prima del caso Mondadori, Mesiano era finito sui giornali per cause più modeste: quando ordinò di anticipare di due ore la chiusura di un bar che faceva chiasso, o quando condannò il Comune per non avere curato la manutenzione del pavè stradale su cui era scivolato un pedone. Ieri, quando a Milano si è sparsa la notizia della sentenza a carico della Fininvest, e si è scoperto che a firmarla era stato Mesiano, molti avvocati sono rimasti stupiti. Anche perché finora il giudice non era mai stato considerato un giudice di manica larga nei confronti delle vittime: «Mi ricordo ancora - racconta un avvocato - di un vecchietto che era stato investito sulle strisce pedonali e praticamente ammazzato, lo avevano ridotto con una invalidità del cento per cento. Perché Mesiano gli accordasse un risarcimento ci volle del bello e del buono».
L.

F.

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