Coronavirus

Ecco la verità sul Trivulzio che smonta i teoremi di Repubblica

La relazione della Commissione di inchiesta sui decessi al Pio Albergo Trivulzio

Ecco la verità sul Trivulzio che smonta i teoremi di Repubblica

Tutto questo casino, e poi? L'aumento della mortalità è stata inferiore alla media delle altre Rsa lombarde. E il virus si è diffuso presto, ben prima che venissero trasferiti pazienti Covid come da delibera della Regione. La si attendeva da tempo e finalmente è arrivata la relazione della Commissione di verifica sulla gestione dell'emergenza al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Un esito dei lavori che solleva alcune criticità, ma che sostanzialmente smonta la campagna stampa contro il Pirellone e la decisione di utilizzare le Rsa per i degenti Covid dimessi dagli ospedali.

La polemica politica

Ricorderete forse l'inizio della querelle. Il 4 aprile un articolo di Gad Lerner sulla "epidemia insabbiata" al Pat fa esplodere la polemica politica e le telecamere dei giornali si rivolgono tutte alla Baggina. I parenti delle vittime protestano, alcuni dipendenti denunciano di non aver ricevuto mascherine o di essere stati costretti a non indossarle. Poi emerge la direttiva della Regione che chiedeva alle Rsa di trovare strutture (separate) dove ospitare pazienti positivi in via di guarigione. L'ispezione del ministero della Salute porta il sottosegretario Zampa a dire che "erano state date disposizioni a tutti di non far entrare possibili contagiati e invece questo non è accaduto", accusando la struttura di aver avuto "un numero di decessi anomali" e di aver fatto entrare il virus killer. Poi scattano le perquisizioni, le indagini, le denunce.

Il virus prima dei pazienti Covid

La relazione della commissione istituita dalla Regione, però, racconta un'altra storia. Che in parte ridimensiona le invettive contro il Pat e il Pirellone. Il primo punto riguarda l'ingresso del virus: è stato portato dai pazienti Covid? No. Il Pio Albergo Trivulzio, ha detto Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell'Ats Città Metropolitana di Milano, "metteva già in isolamento a fine febbraio alcuni casi con sintomatologia simil influenzale che, col senno di poi, riconosciamo probabilmente essere stati casi di coronavirus. Quindi erano presenti già allora. L'ipotesi è di un ingresso precoce dell'infezione dall'esterno, probabilmente attraverso gli operatori di assistenza o gli educatori, con poi una propagazione interna che ha raggiunto il suo massimo nella seconda metà del mese di marzo. Questa ipotesi è incompatibile rispetto a quella di un innesco partito da pazienti trasferiti durante l'emergenza Covid-19".

Le mascherine

Un altro punto cruciale riguarda le mascherine. Ovviamente il reperimento è stato "problematico" come in tutta Italia: il Pat ne aveva a disposizione per l'attività ordinaria circa 7mila, che però sono finite rapidamente con l'arrivo della pandemia. "Gli ordinativi, effettuati il 24 febbraio, sono stati vanificati dall’ordinanza della Protezione Civile del 25 febbraio che ha centralizzato gli acquisti effettuando, però, le prime consegne di materiali solo in data 23 marzo - si legge - L’unità di coordinamento ha dovuto mantenere indicazioni di razionamento secondo criteri di priorità (reparti con attività producenti aerosol, operatori immunodepressi, assistenza pazienti in isolamento) fino 13 aprile 2020, quando le forniture sono ritornate regolari". Dunque se è vero che i Dpi non ce ne erano a sufficienza, è anche vero che la colpa non può essere tutta del Pat. Che si è vista pure vanificare gli ordinativi dall'ordinanza di Borrelli&co. Infine, nonostante le denunce di alcuni operatori, non è emerso "nessun riscontro documentale sul divieto di indossare mascherine nei confronti degli operatori sanitari".

Le assenze

Nota dolente riguarda invece le assenze dal lavoro. All'inizio dell'emergenza, cioè il 21 febbraio, era a casa il 30% dei circa 900 operatori sanitari e sociosanitari. Una percentuale schizzata al 57% nel pieno della pandemia, nonostante solo il 9% sia stato segnalato all'Inail per contagio da Sars-Cov-2. "Ci sono state tantissime assenze tra il personale e di queste solo una parte piccola può essere giustificata dalla malattia", ha detto Demicheli. "In alcuni reparti e per alcune figure - si legge nel testo - le assenze hanno interessato il 65% della forza lavoro. Un livello così elevato di assenze dal lavoro difficilmente trova spiegazione nella diffusione del contagio tra gli operatori come rivelano gli indici di infortunio specifico segnalati dalla struttura".

La mortalità al Pat

Di decessi in eccesso rispetto al passato ce ne sono stati, inutile nasconderlo: quasi 300 tra sedi centrali e distaccate. Ma non più di quanti non siano stati registrati nel resto delle Rsa lombarde o in generale tra gli over 70 in regione. "Non è successo niente di molto diverso da quello che è accaduto nella media delle strutture simili, anzi l'impatto è stato leggermente inferiore", ha spiegato Demicheli. In particolare, si legge nella relazione, il "rapporto tra decessi osservati e decessi attesi nel primo quadrimestre nel PAT è stato pari a 1.7 mentre quello corrispondente nelle RSA di ATS Milano è stato pari a 2.2". Per quanto riguada la sezione Rsa, l'eccesso di mortalità è stato "molto inferiore a quello medio delle altre RSA nel medesimo periodo (Rapporto Decessi Osservati/Attesi = 2.9 vs 3.7) e di poco superiore a quello verificatosi nella popolazione generale over 70 di ATS (Rapporto Decessi Osservati/Attesi = 2.3)".

Le criticità emerse

I componenti della Commissione, tra cui anche i magistrati Gherardo Colombo (incaricato dal Comune) e Giovanni Canzio, hanno poi sottolineato alcune delle criticità emerse nella gestione dell'emergenza da parte del Pat che "non è sempre riuscito a dare adeguata applicazione alle procedure di tutela degli operatori". Le colpe sono in parte di natura esterna (come l'assenza di Dpi introvabii e "l’indicazione ministeriale di effettuare i tamponi nasofaringei per ricerca di RNA virale solo all’ingresso in ospedale"), e in parte di natura interna ("un elevato tasso di assenteismo del personale", "la difficoltà dell’Unità di Coordinamento a incidere efficacemente sui comportamenti concreti" e le caratteristiche strutturali che rende difficile una regolamentazione degli accessi). Inoltre il sistema di gestione delle qualità e di risk managment "non contemplava l'eventualità di un focolaio epidemico di questa natura e di queste dimensioni", anche se lo stesso è stato riscontrato in strutture analoghe. "Del resto - si legge - la possibilità di una pandemia da coronavirus non era contemplata neppure dai piani pandemici nazionali e regionali che richiamavano, nel caso di una pandemia influenzale, la sola necessità di potenziare l’assistenza da prestare agli ospiti delle RSA".

Insomma, sebbene di problemi ve ne siano stati, dalla relazione della Commissione non appaiono errori tali da giustificare una campagna così dura contro la Baggina. L'infezione? È arrivata precocemente, forse per colpa del personale o dei visitatori. Non per colpa del Pirellone. I pochi Dpi? Hanno sicuramente diminuito l'efficacia delle procedure di isolamento, così come un effetto negativo l'ha avuto la carenza di personale "che non ha consentito di organizzare turni di personale dedicato in modo esclusivo ai diversi nuclei".

I tamponi? Certo se avessero fatto uno screening a tappeto sarebbe stato meglio, ma non è colpa del Pat: nelle fasi iniziali della pandemia, infatti, "le indicazioni emanate dal Ministero della Salute, e riprodotte nelle circolari regionali, prevedevano l’esecuzione dei tamponi nei soli soggetti sintomatici all’ingresso in ospedale".

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