Il principe dell’informazione che ha dominato la tv fra scoop e partigianeria

Gli esordi come inviato alla Rai, la carriera al tg, la nascita di Studio Aperto e il divorzio da Mediaset

Il principe dell’informazione che ha dominato la tv fra scoop e partigianeria

Emilio Fede è morto ieri a San Felice di Segrate, alle porte di Milano. Aveva 94 anni ed era malato da tempo. Era nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) il 24 giugno 1931. È stato uno dei volti più familiari dell'informazione televisiva italiana. Entrato in Rai a inizio anni '60, ha condotto il Tg1 delle 20 dal 1976 al 1981, quando ne è diventato direttore (1981-83). Poi divenne direttore di Studio Aperto su Italia 1 e poi del Tg4, lasciato nel 2012. Nel 1964 aveva sposato Diana De Feo dalla quale ha avuto due figlie, Simona e Sveva. I funerali si terranno giovedì 4 alle 16 a Segrate

Oramai era un sopravvissuto, sfuggito al controllo del tempo. La sua carriera si era chiusa di fatto in modo burrascoso nel 2012, quando aveva incrociato temerariamente le lame con la dirigenza di Mediaset, forse pensando di essere invincibile. E invece era uscito di scena, anche se le sue apparizioni, come quelle di una reliquia, sono andate avanti in epoca recente su Cusano Italia Tv.

Ci sono almeno due fasi nella biografia movimentata di Emilio Fede, nato a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, il 24 giugno 1931 e morto ieri pomeriggio in una Rsa di Segrate, a poche centinaia di metri dalle luci di Mediaset, dove era stato protagonista di un'epopea popolare nel segno di Silvio Berlusconi, la sua bussola.

Il papà di Fede era un maresciallo dei carabinieri, la mamma una cantante d'opera. Un mix fra legge e arte. In lui prevaleva il talento, disordinato e fulmineo. Una passione sfrenata per il giornalismo, coltivato da sempre con capacità e difetti tutti fuori misura, formato extralarge.

Che fosse un numero uno lo si era capito subito. Entrò alla Rai nel 1961 e fu a lungo, negli anni Sessanta della decolonizzazione, un inviato di guerra che girava come una trottola. Lo chiamavano Sciupone l'Africano, forse largheggiava nelle note spese, ma il soprannome aveva un'altra spiegazione: «Ungeva abbondantemente gli informatori e così si procurava le notizie», raccontava Paolo Mieli, che lo aveva incrociato come inviato dell'Espresso.

Quando attraversava le frontiere, Fede esibiva come passaporto le foto con dedica dei leader di mezzo mondo e questo gli apriva porte proibite. Ancora, al Club Juventus di Addis Abeba le sue immagini riempivano le pareti. E non si entrava senza il suo placet.

Una personalità forte e pop, più che politicamente scorretta o, peggio, piegata al padrone, come è stata poi presentata quando l'abbraccio con Silvio Berlusconi cancellò tutto il resto.

Fede è fra il '76 e l'81 il conduttore principe del Tg1 delle venti e poi per due anni il direttore della testata. C'è lui alla guida della macchina comunicativa più importante d'Italia quando Piero Badaloni conduce la celebre, disperata diretta da Vermicino e battezza la tv del dolore.

Il gioco d'azzardo è un demone, uno dei tanti che l'hanno afferrato, e questo, al di là di un processo che finisce con l'assoluzione, incrina il rapporto con i vertici della tv di stato. Finisce una stagione e, dopo una parentesi a Rete A, dove fonda il TgA, il primo tg nazionale privato della tv italiana, eccolo alla corte di re Silvio. Crea Studio Aperto e il 16 gennaio 1991 batte tutti sul tempo annunciando l'operazione Desert Storm. È il primo anche a dire che i due ufficiali Maurizio Bellini e Gianmarco Cocciolone erano stati catturati dopo la caduta del loro aereo.

Poi nel '92 inizia il ventennio al Tg4. E qui come in un romanzo, ciascuno di noi ricorda un pezzo, una pagina, una smorfia: l'intuizione di buttare sul marciapiede davanti a Palazzo di giustizia di Milano un giovanissimo Paolo Brosio per catturare notizie e retroscena; ancora, la straordinaria reattività davanti ai fatti della grande cronaca: è lui ad improvvisare la diretta ancora una volta bruciando la concorrenza l'11 settembre 2001. Ma anche la notte della strage di via Palestro, arriva di corsa con i suoi inviati sulla scena terribile: «Dormivo a casa a Milano 2 - mi raccontò - il boato mi svegliò, capii subito che era successo qualcosa di grave».

Anche i fuori onda di questo principe dell'informazione erano un genere a sé, oggetto di satira e di infiniti tentativi di imitazione. Insomma, c'è Fede in un angolo della nostra memoria e a volte basta una circostanza per ritrovare un frammento di quel giorno o di quel fatto.

Fede è interprete di un mondo, schierato, di più, come nemmeno in Bulgaria ai tempi del comunismo, con il Cavaliere. Partigiano. Ma di una partigianeria così sfacciata da essere quasi simpatica e mai ipocrita come quella di tanti pretesi signori dell'imparzialità e di una fantomatica neutralità che sono di solito quelli più proni.

Nel 2012 anche il ventennio di questo anchorman fuori scala si chiude. Non bene. Fra dissidi, incomprensioni, il ciclone dell'inchiesta Ruby. Nel Ruby ter arriva la condanna, in compagnia di Lele Mora e Nicole Minetti, l'igienista dentale. Uscire di scena è sempre difficile e la biografia, sempre più tormentata, non fa sconti a chi è stato un'icona per cinquant'anni. La malattia.

La morte della moglie, Diana De Feo, giornalista e poi parlamentare di Forza Italia, legata da un matrimonio lungo quasi sessant'anni. La solitudine, che lui talvolta scambiava per ingratitudine. Il declino. E le ultime ore nell'abbraccio delle figlie Sveva e Simona che ora, come capita a milioni di famiglie, piangono il loro papà.

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