
"Il menu alla fine è la cosa più semplice del mio lavoro. Se conosci gli ingredienti e le tecniche non puoi sbagliare. Ma al mondo esistono milioni di piatti buoni. E allora perché un cliente dovrebbe venire da noi?". Bella domanda.
Giuseppe Iannotti, 43 anni, è uno degli chef più geniali e irregolari della scena italiana: un locale a Telese Terme (Krèsios, un posto pazzesco, due stelle Michelin), un altro uno e trino a Napoli nelle Gallerie d'Italia (il ristorante 177Toledo, il bar Anthill e il bistrot Luminist) non le manda mai a dire.
Allora, Iannotti: perché un cliente dovrebbe venire da lei?
"Noi vendiamo la cura delle persone. Io non penso al mio ego, oggi chi dice di aver inventato qualcosa mente, chi pensa di essere il più bravo al mondo fa quello che hanno già fatto tre miliardi di persone. Io mica sono il più bravo, ce ne sono tanti più bravi di me".
A maggior ragione perché uno dovrebbe mangiare da lei?
"Perché io non chiedo al cliente: ti piace? E alla fine nemmeno mi interessa. A me interessa che alla fine della cena tu sia stato bene, anche se non mi hai capito. Ma magari ti sei goduto un'esperienza diversa".
Ma uno come lei alla cucina come è arrivato?
"Mi sono fermato a quattro esami dalla laurea in Ingegneria informatica. Intanto facevo il cameriere per avere la mia indipendenza. Poi arrivare in cucina è stato naturale, io sono un gastronomo fin dalla culla. Da piccolo riconoscevo quando il latte era della mucca della signora Maria o del tetrapack".
Lei è considerato un maniaco del dettaglio.
"Pensi che per il bagno delle donne sono andato al supermercato e ho comprato tutti gli assorbenti che ho trovato al supermercato. Doveva vedere la faccia della cassiera. E in cucina non ammetto l'errore".
Lei a Telese Terme non ha una carta ma un menu al buio. Bella fiducia, che deve avere il cliente
"Ma da noi il cliente si diverte, non abbiamo tovaglie, l'ordine delle portate cambia, la pasta la servo sempre alla fine da dodici anni. E il cliente può mangiare con le mani, anzi io penso che una volta che è uscito dalla cucina un piatto non è più mio ma di chi lo ha ordinato, puoi farci quello che vuoi, anche buttarlo per terra".
Lei racconta i suoi piatti?
"No. A chi interessa se lo chef ha pensato quel piatto mentre stava lì con l'occhio chiuso e la gamba alzata? Non gliene fotte più niente a nessuno. Noi ci occupiamo del vero lusso delle persone, il tempo, dobbiamo renderlo migliore. E mi irrito quando mi chiamano artista. Ma che artista, al massimo artigiano, e solo il giorno che creo qualcosa, perché quando la riproduco divento un'industria".
Un ristorante nel Sannio e uno a Napoli. Differenze?
"A Telese ora siamo perfetti al 361 per cento. Mi potete togliere le stelle, ma Krèsios ha la sua identità, non è un modello di ristorante ma il mio ristorante. Può stare solo a Telese Terme perché è la mia terra. Napoli in fondo non la amo, sono un sannita, ma per me è una bella sfida affrontare una città che sta svendendo il suo patrimonio gastronomico. Il Luminist in particolare è il mio parco giochi, è trasversale e mi permette di rivolgermi al grande pubblico, di far loro capire che c'è differenza tra il mio croissant a 3,50 euro e l'ischitano venduto nel bar davanti a 1,50 euro. Posso far capire a Napoli che non è condannata al junk food".
E 177 Toledo?
"Sono super contento, ovviamente rispetto ad Anthill e Luminist è più lento, non l'abbiamo posizionato in modo ruffiano, ma visto che ho altri due outlet che tirano la carretta non ho voluto fare questa scelta. È un altro punto di vista mio, diverso da Kresios perché non volevo mettere in ombra quest'ultimo".
Da lei non si rimane a tavola quattro ore...
"Il ritmo per me è un ingrediente, bisogna mantenere sempre alta l'attenzione, e poi se tu smetti di masticare per più di 15 minuti inizia la digestione".
Cosa pensa della cucina italiana?
"Sincero?"
Sincero.
"In Italia faccio fatica a trovare un posto dove mi piace andare a mangiare. L'Osteria del Mirasole a San Giovanni in Persiceto, Trippa di Diego Rossi, La Tana Gourmet di Alessandro Del Degan poi non molto altro. Io preferisco Spagna e Giappone, mi piace il loro modo di approcciarsi al cibo".
La Spagna ci supera sempre nelle classifiche dei ristoranti del mondo. Che cos'ha più di noi?
"I ristoratori da noi non fanno squadra. Quando durante il Covid da noi gli chef facevano gli spaghetti nei video, in Francia Yannick Alléno e Alain Ducasse erano seduti davanti al presidente a cercare soluzioni alla crisi. In Spagna gli chef si scannano come da noi, ma poi da fuori si muovono come una squadra".
Cosa pensa della critica, delle stelle?
"Per me non sono un'ossessione, io faccio il mio, poi chi mi premia decide lui. Ma chi dice che la Michelin non conta dice una grande cazzata".
Crede nel chilometro zero?
"No, preferisco parlare di chilometro buono, se l'ingrediente migliore viene da più lontano io scelgo quello".
Ma il fine dining sta quindi morendo?
"Macché, sta morendo un certo modo di farlo.
Se tu non fai star bene il cliente, se lo riempi di informazioni, se vuoi farlo strano per forza oppure fai cucina da trattoria con prezzi da stellato, da te chi vuoi che venga? Quello sì che è un fine dining che deve morire".