Non solo l'oscura cappa degli Ayatollah. Alla riscoperta della poesia iraniana

La Persia ha una lunga tradizione di sapienza letteraria che nel Novecento è stata riportata in vita e contaminata

Non solo l'oscura cappa degli Ayatollah. Alla riscoperta della poesia iraniana
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Per capire un Paese, occorre leggere i suoi poeti. L'assunto appare velleitario soltanto in Italia, Paese che relega i poeti nella torre d'avorio, cioè nel letamaio dell'indifferenza. Eppure così è inscritto nel marmo, sulla fronte del Palazzo della Civiltà Italiana dovremmo essere «un popolo di poeti etc. etc.».

In altri Paesi, i poeti, più dei trattati di geopolitica, dicono l'identità e il destino di un luogo, ne sono in modo misterioso i custodi. Il dominio del mondo anglofono e di quello francofono annientano, però, letteralmente, le voci di intere aree del mondo. Nulla sappiamo delle più antiche civiltà del pianeta: che poesia si legge oggi in India? Quali fermento lirico agita la Cina? Che libri si pubblicano in Myanmar? La Francia detiene il primato di Nobel per la letteratura (16; seguono Regno Unito e Stati Uniti): in tale classifica l'Iran è assente. Eppure, la Persia è terra tradizionalmente legata alla sapienza letteraria: ricordiamo le leggendarie traduzioni delle quartine di Umar Khayyam, i versi mistici ed ebbri di Hafez e di Rumi, l'inattingibile genio di Attar. Al di là degli studi, miliari, di Henry Corbin, va detto della nobile scuola degli iranisti italiani: Alessandro Bausani, Pio Filippani Ronconi, Carlo Saccone, Alberto Ventura. Da par suo, Franco Battiato preferiva la Persia irachena: per la sua casa editrice, L'Ottava, fece tradurre Abd al-Qadir al-Gilani; nel dicembre del 1992 realizzò un leggendario concerto a Baghdad. Nel 1970, Gabriele Basilico compie un ciclo di scatti sull'Iran di barbarica bellezza. Insomma, i legami culturali tra Italia e Asia mediorientale sembrano saldi. Tuttavia, la letteratura iraniana contemporanea pare un tabù e il nostro immaginario, come scrive Faezeh Mardani introducendo questo libro che ha lo stigma della necessità, è legato, per lo più, agli echi di un mondo fiabesco da Mille e una notte, al paese delle cupole celesti, di illuminati profeti e sfarzosi sovrani.

A leggere l'antologia Poeti iraniani dal 1921 a oggi (a cura di Faezeh Mardani e di Francesco Occhetto, Mondadori, pagg. 416, euro 24), si resta sconcertati dalla voracità intellettuale passiamo dalla Poesia nuova allo Spazialismo, dai poeti sperimentali a quelli che riprendono i metodi ritmici della tradizione di un Paese che ha fatto della poesia il centro polemico, politico, filosofico della propria essenza. I soli poeti noti tra gli antologizzati Forough Farrokhzad e Abbas Kiarostami sono, per paradosso, i meno interessanti. Invece, è estasiante la levità di Ziya' Movahhed, filosofo in versi («Al contempo vorrei/ esser colomba e acacia,/ esser muschio e ruscello,/ restarmene in me e crescere,/ le parole guardandomi meravigliate»), sono spiazzanti i versi apodittici di Bijan Jalali («Nello sciabordio delle onde/ mi immergo/ da millenni il mare/ continua a infuriare/ e io un ciottolo resto/ annidato nel suo fondale»), quelli enigmatici di Sohrab Sepehri («Non c'è nuvola./ Non c'è vento./ Mi siedo sul bordo della vasca in cortile:/ pesciolini, luce, io, fiore, acqua./ Grappolo puro della vita»).

I poeti più convincenti raccolgono il lignaggio degli antichi maestri: la poesia non è mero decoro dell'io, non è neppure stentoreo ribellismo, ma un mezzo conoscitivo, una via, se vi va.

Se è vero che la salute per non dire: la salvezza di un Paese si rivela dalla vivacità dei suoi poeti, l'Iran, luogo di micidiali contraddizioni, sta benissimo.

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