Letteratura

Il pellegrinaggio di D.H. Lawrence alle tombe dove si conserva la vita

Nel 1927 lo scrittore visitò le necropoli dove "il cosmo è un'immensa creatura"

Il pellegrinaggio di D.H. Lawrence alle tombe dove si conserva la vita

Per un archeologo, compiere uno scavo rappresenta un passo in avanti nella conoscenza del passato. Ciò che muove la sua ricerca è fondamentalmente la messa in opera di un mosaico, la risoluzione di un enigma sui popoli e le culture che ci hanno preceduto. Ma se tra le rovine si muove uno scrittore, un poeta, allora il desiderio che lo nutre è assolutamente diverso. Egli cerca, tra quegli scavi, in quei resti di una civiltà sepolta, qualcosa che lo riguardi, un mistero al quale crede di appartenere.

Tra i viaggi compiuti in Italia da intellettuali europei, quello del britannico David Herbert Lawrence è certamente tra i più atipici e interessanti. Per la verità l'autore de L'amante di Lady Chatterley già abitava in una villa a Scandicci, cercando nella nostra penisola un clima più mite per curare la tubercolosi. Nel 1927, insieme al pittore Earl Henry Brewster, decide però di compiere un pellegrinaggio nei luoghi etruschi, in quell'Italia centrale e tirrenica - tra Cerveteri e Tarquinia, tra Vulci e Volterra - dove la civiltà preromana maggiormente si insediò. Ne nacque Luoghi etruschi, ora riproposto da Neri Pozza nella collana diretta da Giorgio Agamben, con una postfazione di Monica Ferrando (pagg. 186, euro 17, traduzione di Lorenzo Gigli).

Ma che cosa era rimasto di quell'antico popolo che non aveva lasciato tracce neppure di una lingua che ne testimoniasse una letteratura? Nulla. Nulla se non tombe vuote. Eppure in quel nulla per Lawrence si nasconde una pienezza massima di vita. «Per gli Etruschi tutto era vivo; l'intero universo viveva e la funzione dell'uomo era di vivere egli medesimo in mezzo a esso. Egli doveva trarre la vita dentro di sé, fuori delle vaganti immense vitalità del mondo. Il cosmo era vivo, come una smisurata creatura. L'insieme respirava e si moveva». Ma da che cosa trae Lawrence questa visione solamente entrando in quelle grotte scavate nella roccia, affrescate con scene di vita quotidiana e animali che rappresentano una dualità in contrapposizione (ma che pure era aldilà del concetto di bene e di male)? Come trova la vita in questo mondo sotterraneo che pure gli appare come l'imitazione del mondo in superficie, tanto che le tombe somigliano a dimore, case, focolari? Il punto è proprio questo, che «la morte, per gli Etruschi, era una piacevole continuazione della vita, coi gioielli e il vino e i flauti che sonavano la danza. Non era né un'estasi di felicità, un paradiso, né un purgatorio di tormento. Era soltanto la naturale continuazione della pienezza della vita. Ogni cosa si poneva in termini di vita, era vitale».

La questione dirimente, per lo scrittore, è esattamente una visione «gioconda» della vita, una vita che la morte include, che è parte della vita, vita essa stessa. Prima di essere depredati dai conquistatori romani, e influenzati dai coloni greci, gli etruschi erano un popolo che viveva senza avere la pretesa di addomesticare la natura, di razionalizzarla. E «mantenere il senso giocondo della vita» è «un compito indubbiamente più meritevole e alla lunga anche molto più difficile di quel che non sia conquistare il mondo o sacrificare il proprio io o salvare l'anima immortale».

Per uno scrittore come Lawrence quella vitalità, quella prossimità tra vivi e morti, tra superficie e sottosuolo, quel senso istintivo di sentire ogni fenomeno, ogni oggetto naturale, erano l'eredità più grande che una civiltà potesse consegnargli. Un'eredità che secoli di conquiste, e di leggi, e di ordinamenti, e di pensiero avevano ormai totalmente cancellato. «Gli Etruschi non sono una teoria o una tesi.

Se qualcosa sono, sono un'esperienza».

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