Il "pellegrino del nulla": Matteotti fra le dittature

Il suo pensiero fu inconciliabile con il comunismo e Gramsci lo attaccò. Ma nemmeno Croce lo sostenne

Il "pellegrino del nulla": Matteotti fra le dittature

Il recente volume su Il pensiero di Giacomo Matteotti (a cura di Maurizio Degl'Innocenti, Andrea Giardina e Alessandro Roncaglia, edito da Laterza, pagg. 280, euro 20) ha il merito di riproporre e di rimeditare alcuni momenti importanti della storia del nostro Paese nei primi decenni del Novecento: momenti che certa storiografia tende a rimuovere e a dimenticare. Si legge con interesse, in questo volume, il contributo di Pier Giorgio Zunino su Benedetto Croce nella crisi Matteotti, in cui si ricorda che il filosofo napoletano votò, in Senato, la fiducia al governo Mussolini anche dopo l'assassinio del deputato socialdemocratico. Del resto, l'atteggiamento di Croce verso la nascita del fascismo e il suo avvento al potere fu non solo di benevola attesa, ma di aperto appoggio e di calda simpatia. Come molti altri esponenti liberali della sua generazione, Croce vide nel fascismo lo strumento necessario (ma temporaneo), per porre termine all'epidemia di scioperi, alle violenze e alle minacce di rivoluzione dei socialisti massimalisti e dei comunisti, che avevano portato il Paese a una situazione di paralisi e di caos. L'Italia, secondo il filosofo napoletano, soffriva di una grave malattia, e le occorreva quindi una medicina energica per guarirne; una volta guarita, non ci sarebbe stato più bisogno della medicina.

L'atteggiamento benevolo di Croce verso il fascismo può essere ricostruito attraverso tre interviste dell'ottobre 1923, del febbraio e del luglio 1924. Nella prima intervista (al Giornale d'Italia) il filosofo napoletano, pur dichiarandosi liberale, sosteneva l'utilità del fascismo, che certo liberale non era. Ma, diceva Croce, non era facile «superare tanto presto la somma delle bestialità commesse in Italia nei primi anni del dopoguerra». «Dove sono si chiedeva il filosofo le forze che possano, ora, fronteggiare o prendere la successione del governo presente?». E rispondeva: «Io non le vedo. Noto invece grande paura di un eventuale ritorno alla paralisi parlamentare del 1922. Per un tale effetto, nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento».

Concetti analoghi Croce ribadiva nell'intervista del febbraio 1924 al Corriere italiano. In vista delle elezioni, che si sarebbero svolte con la nuova legge maggioritaria voluta da Mussolini, il filosofo napoletano formulava «l'augurio che sia largamente sentita la necessità di non compromettere l'opera intrapresa di restaurazione politica». Il governo presieduto da Mussolini faceva intendere «che non si può governare senza una maggioranza», e quindi esso chiedeva giustamente che il Paese gli desse una maggioranza compatta. Su ciò Croce non nutriva dubbi né incertezze: quella maggioranza «bisognava procurare di dargliela».

In questo periodo il filosofo napoletano sottolineava con energia il ruolo e l'importanza del fascismo, il cui centro vitale era egli diceva «l'amore alla patria italiana», era «il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato», era «il giusto convincimento che lo Stato senza autorità non è uno Stato». Del resto, anche il liberalismo, che non era democraticismo o demagogismo, aveva a suo fondamento il concetto di uno Stato tanto saldo da poter accogliere in sé le tendenze antitetiche e permetterne lo sviluppo, conservando continuamente l'equilibrio tra esse. Senonché proprio in ciò, a un certo punto i liberali italiani avevano fallito, e il fascismo aveva risposto alla bisogna. «E stimo un così grande beneficio aggiungeva Croce la cura a cui il fascismo ha sottoposto l'Italia, che mi do pensiero piuttosto che la convalescente non si levi troppo presto di letto, a rischio di qualche grave ricaduta».

Nell'intervista, infine, del luglio 1924 al Giornale d'Italia, Croce spiegava il suo atteggiamento benevolo verso il fascismo anche dopo il delitto Matteotti, atteggiamento che si era espresso nel «prudente e patriottico voto di fiducia dato in Senato al governo Mussolini». Vero è che a questo punto anche Croce incominciava a esprimere alcune preoccupazioni verso il decorso del fascismo. Gli sembrava infatti che «l'orribile delitto Matteotti» fosse «significativo di un errato indirizzo preso dal fascismo, indirizzo che nel suo estremo portava a conseguenze come queste». Tuttavia, fatte queste riserve, sarebbe stato profondamente sbagliato, diceva Croce, desiderare che «il fascismo cadesse a un tratto», poiché esso non era stato «un infatuamento e un giochetto», bensì aveva risposto a «seri bisogni» e aveva fatto «molto di buono», come «ogni animo equo» non poteva non riconoscere. Solo dopo le «leggi fascistissime», che instaurarono la dittatura, il filosofo napoletano passerà all'opposizione.

In questo volume sul pensiero di Giacomo Matteotti viene posto giustamente in rilievo l'abisso che divise sempre l'esponente socialdemocratico dai comunisti. Quando, nel gennaio del 1924, il partito comunista propose ai due partiti socialisti (Psi e Psu), in vista delle elezioni politiche, una alleanza elettorale, la trattativa si arenò subito poiché i comunisti escludevano assolutamente l'ipotesi di «qualsiasi blocco di opposizione al fascismo che si proponesse come scopo una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie». Durante l'incontro fra le delegazioni del Pcd'I, del Psi e del Psu, Matteotti, segretario del Psu, disse rivolto ai comunisti: «Lottare a fondo contro il fascismo? D'accordo. Ma in nome di che? Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi in nome della dittatura. C'è tra noi un dissidio di principio insuperabile. Appunto perché vogliamo lottare contro il fascismo, non possiamo confondere la nostra posizione con la vostra. La vostra fa il gioco del fascismo.

Siete disposti a dichiarare che rinunciate alla dittatura, che siete contro le dittature? Se sì, possiamo fare senz'altro la lista comune; se no, ciascuno deve andare per la propria strada». Il contrasto fra socialisti democratici e comunisti non poteva essere più netto. Del resto, dopo il suo assassinio, Gramsci definì Matteotti «il pellegrino del nulla».

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