"Ricordiamo come negli anni Novanta ci avete promesso che [la Nato] non si sarebbe spostata di un pollice a est". Vladimir Putin ha citato spesso l’evento “madre” di tutti i fraintesi nei rapporti tra Mosca e il mondo occidentale, quel fatidico not an inch to the East pronunciato dall’allora segretario di Stato americano James Baker in un incontro con Mikhail Gorbachev del febbraio 1990.
Il passaggio è all’origine dell’accusa russa all’Alleanza Atlantica di non aver tenuto fede alla promessa del “non allargamento”, svelandone la natura irrimediabilmente ostile alla Russia qualunque sia il suo regime politico. Il presunto tradimento degli impegni assunti da parte occidentale è stato successivamente usato dal Cremlino per legittimare le mosse compiute in Georgia nel 2008, in Crimea nel 2014 e ancora in Ucraina nel 2022. È necessario, pertanto, interrogarsi sulla solidità di questa narrazione.
Anche se non si volesse dare alcun credito al diniego di diplomatici e politici americani di aver mai assunto obblighi in materia di allargamenti con la controparte sovietica, occorre preliminarmente ricordare che lo stesso Baker – dopo un confronto con il presidente George Bush al ritorno da Mosca – modificò la sua posizione. E la controparte sovietica né mosse obiezioni in merito, né pretese di ridiscutere il tema negli altri tre incontri che si tennero tra i massimi rappresentanti delle due superpotenze nel 1990.
A quanti oggi prestano il fianco all’impianto accusatorio russo, inoltre, andrebbero ricordate tre intuizioni degli studi di Relazioni internazionali che hanno trovato riscontro nelle scelte compiute da Nato, Stati Uniti e Unione Sovietica nel fatidico triennio 1989-1991.
La letteratura scientifica ricorda, anzitutto, che in un’alleanza egemonica come la Nato, anche il soggetto più forte – gli Stati Uniti – è sottoposto a vincoli, sebbene siano meno stringenti rispetto a quelli cui soggiacciono gli altri contraenti del patto. Suggerisce, in secondo luogo, che al variare delle condizioni materiali che contraddistinguono un contesto strategico, necessariamente variano anche le intenzioni – e, quindi, le azioni – degli attori. Spiega, infine, che le unità del sistema internazionale accordano tendenzialmente la loro preferenza alla ricerca di sicurezza rispetto all’accumulazione di potere, poiché quest’ultima può comportare rischi maggiori dei benefici generati.
Alla luce di ciò, la narrazione della “promessa tradita” non sembra tenere nella giusta considerazione il fatto che nonostante a inizi anni Novanta fosse fuor di dubbio la leadership americana nell’Alleanza Atlantica, questa non dava comunque a nessun rappresentante della Casa Bianca l’autorità di stringere in suo nome accordi vincolanti, sia di tipo formale che informale, con soggetti terzi. Tanto più promettere unilateralmente restrizioni o allargamenti della membership Nato, che secondo l’art. 10 del Trattato di Washington è oggetto di decisioni su cui valgono i principi dell’unanimità e della sicurezza degli alleati. I limiti del potere americano all’interno dell’Alleanza, d’altronde, sono riemersi ciclicamente, come nel caso della mancata ufficializzazione dell’invito a Ucraina e Georgia ad attivare il Membership Action Plan al Summit di Bucarest del 2008, o della ritrosia degli alleati a soddisfare il Defence Investment Pledge (ancora nel 2022 solo dieci Paesi membri hanno investito il 2% del loro Pil in spesa militare).
Pur volendo ammettere che lo spirito dei colloqui bilaterali Usa-Urss fosse implicitamente andato nella direzione del “non allargamento”, si noti come nel Trattato sullo stato finale della Germania non figura alcun limite alla futura espansione della Nato, né questa risulta in alcun modo menzionata non essendo stata oggetto delle trattative. A conferma di ciò, non sono mai state trovate evidenze del fatto che anche tra i consiglieri di Gorbachev più scettici a riguardo qualcuno abbia mai esplicitamente suggerito al segretario generale del Pcus di pretendere un accordo ufficiale sul “non allargamento”. A convincere il Cremlino a ritirare l’Armata rossa dalla Germania orientale, piuttosto, fu la promessa del sostegno finanziario occidentale alla disastrata economia sovietica. Quello americano, peraltro, sotto forma del Freedom Support Act del 1992 e fu successivamente confermato e potenziato negli anni dell’amministrazione Clinton.
Il nuovo scenario internazionale che stava prendendo forma all’inizio degli anni Novanta, infine, indusse gli alleati a un profondo ripensamento della Nato. L’Alleanza non sarebbe più stata uno strumento esclusivo di contenimento, ma si sarebbe dovuta trasformare in una forza con compiti più “politici”, quali la stabilizzazione e l’integrazione dell’intero continente europeo. Già nella dichiarazione finale del summit di Londra del 1990, infatti, si leggeva "l’Unione Sovietica ha intrapreso il lungo viaggio verso una società libera. Gli europei […] stanno scegliendo la pace. Di conseguenza, l’Alleanza deve adattarsi e si adatterà". Non era nell’interesse dell’organizzazione, d’altronde, ingaggiare un gioco a somma zero con la potenza sconfitta, che avrebbe minato alla base qualsiasi tentativo di una sua reintegrazione e rischiato di azzerare i radicali miglioramenti per la sicurezza del Nord Atlantico che si erano verificati a partire dal 1989.
Lo scioglimento del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica, così come l’estrema fragilità in cui versava la Federazione russa, non furono pertanto interpretate come delle opportunità da sfruttare per massimizzare il potere della Nato sul continente europeo. L’ipotesi dell’adesione di alcuni Paesi prima appartenenti al blocco sovietico, d’altronde, fu messa in standby almeno fino al 1996, in favore del lancio del programma Partnership for Peace (PfP) aperto a tutti i Paesi post-comunisti (Russia inclusa). E anche quando optò per la firma dei protocolli di adesione di Varsavia, Praga e Budapest nel 1997, la Nato varò una sorta di politica di contro-assicurazione. Ad ogni allargamento fece corrispondere un tentativo di intensificazione dei rapporti con Mosca, come confermato dalla firma dell’Atto istitutivo delle relazioni NATO-Russia in cui le parti affermavano «di non considerarsi avversarie» e stabilivano la costituzione di un primo Permanent Joint Council per la consultazione, la cooperazione e le decisioni congiunte.
Similmente, il processo che portò all’allargamento del 2004, avviatosi al summit di Praga del 2002 con la formalizzazione dell’invito a sette paesi ex-comunisti, fu parimenti preceduto da una nuova apertura dell’Alleanza Atlantica nei confronti della Russia. Sempre nel 2002, si tenne a Roma un summit speciale al cui termine fu istituto il Nato-Russia Council. In questa cornice, si dava soddisfazione a una delle principali rivendicazioni avanzate da Mosca sin dagli anni immediatamente precedenti al collasso sovietico, quella di essere considerata come un “pari” dalle potenze vincitrici della Guerra fredda. Nella dichiarazione finale, evocativamente intitolata Nato-Russia Relations. A new quality, si riportava che gli Stati membri della Nato e la Russia avrebbero lavorato "come partner paritari" nelle aree di comune interesse.
A confermare la fragilità dell’accusa della broken promise intervenne in quell’occasione proprio Putin. Il presidente russo, infatti, disse che il nuovo allargamento a est della Nato «non sarebbe stato una tragedia» a patto che non fossero state impiantate infrastrutture militari nei territori dei nuovi Paesi membri.
Il tema del presente articolo è trattato più diffusamente nel volume “La NATO verso il 2030.
Continuità e discontinuità nelle relazioni transatlantiche dopo il nuovo Concetto Strategico” (il Mulino), pubblicato nell’ambito del progetto COMDOL+ del Centro Studi Geopolitica.info con CEMAS Sapienza, DISPI Univ. Genova, UNINT, UNITELMA Sapienza e sostenuto dall’UAP del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.