
Esistono due Trump. Il primo è quello che, fedele alla sua dottrina, tratta dopo aver messo la pistola sul tavolo. Lo si è visto in azione in Medioriente. Il negoziato si è aperto dopo due dimostrazioni di potenza: l’attacco americano ai siti nucleari di Teheran e l’ok di Washington, goffamente smentito, al bombardamento israeliano dello stato maggiore di Hamas a Doha. Due episodi che The Donald ha indicato più volte come le chiavi di volta che hanno aperto la strada alla tregua di Gaza.
Il secondo Trump, invece, quello che si mostra ad Oriente, si rimangia la dottrina del primo o meglio l’applica alla rovescia. Minaccia ogni tipo di misura per costringere Putin alla pace ma poi basta che lo Zar lo incontri, gli riservi complimenti e lodi per alimentare il suo ego, il tycoon torna indietro: aveva ventilato sanzioni esiziali per l’economia russa ma dopo l’incontro con Vladimir in Alaska le ha riposte in soffitta; aveva ipotizzato di fornire i Tomahawk a Kiev per impressionare Putin ma è bastato che l’uomo del Cremlino lo invitasse a Budapest e i missili sono tornati negli hangar. Insomma, quando si tratta dell’amico Vladimir, The Donald si siede al tavolo con la pistola scarica. Ora è giusto scommettere sulla pace, sperare che alla fine Trump prenda lo Zar per il verso giusto (saremmo tutti felici) ma è difficile
non notare che a seconda del parallelo salgono sul palcoscenico due Trump, con due dottrine e due strategie diverse. Certo, la Russia non è l’Iran non fosse altro perché è un paese sterminato ed è una potenza nucleare. Come pure i legami che Israele può vantare con gli Stati Uniti non sono sicuramente paragonabili con quelli su cui può contare l’Ucraina con il povero Zelensky che quando varca il cancello della Casa Bianca non sa mai se sarà trattato con gli onori di un capo di Stato o come uno dei tanti camerieri di The Donald. Detto questo, però, siamo di fronte ad una guerra che ha provocato centinaia di migliaia di morti senza che un numero così tragico abbia insinuato - al momento - nessun dubbio nella mente di Putin. E poi c’è una differenza: in Medioriente gli americani le armi le hanno usate in prima persona, nello scacchiere ucraino invece debbono fornire i missili che l’esercito di Kiev non ha, più o meno come fanno da tre anni l’Iran, la Cina, la Corea del Nord con Mosca. Ma, soprattutto, senza una prova di forza preventiva, come la politica dei dazi verso il mondo intero o le mosse in medioriente, The Donald rinnega se stesso: per uno che da imprenditore o da presidente ha usato sempre pressioni, leve e bluff nei negoziati è una novità. A Budapest Trump non si presenta con il ruggito del leone che si è sentito preso in giro in Alaska, ma come un gattino che miagola e fa le fusa pronto a giocare ancora una volta con la palla. Solo che
dovrà vedersela al solito con un personaggio di lunga esperienza come Vladimir Putin, che sa interpretare al meglio la ferocia e l’astuzia dell’orso russo. E dare l’impressione allo Zar che le minacce possano rientrare, che le parole non abbiano peso, può rivelarsi un errore fatale.
Arriviamo al punto. C’è una ragione di fondo se esistono due Trump: il presidente Usa sembra quasi non considerare, a differenza del Medioriente, il conflitto ucraino affar suo. È indolente negli impegni che prende. Dire, ad esempio, che la questione dei territori è stata decisa dall’evoluzione del conflitto e che i confini saranno determinati dalla linea del fronte ha un senso: l’Ucraina al momento non è nelle condizioni di riconquistare alcunché. Ma proprio per questo devi dargli delle garanzie - può essere l’ingresso nella Nato, un meccanismo tipo l’art. 5 dell’Alleanza, la presenza nell’Unione europea - che la rassicurino per il futuro.
Ma non è questa l’aria che tira a Budapest visto come la pensa il padrone di casa, Orban, che non vuole Kiev neppure nella Ue. Ecco perché l’Europa, quella vera, si deve prendere le sue responsabilità prima che sia troppo tardi.