
«Non voglio iniziare le guerre, voglio finirle». Va riconosciuto a Donald Trump, al netto di qualche inciampo, di avere perseguito con coerenza l'obiettivo annunciato nel suo discorso inaugurale dello scorso 20 gennaio. Del resto, già durante il suo primo mandato aveva preso nettamente le distanze dai Repubblicani neocon, dal loro interventismo militare e dalle pretese di «regime change» che avevano segnato la presidenza di George W. Bush. Una postura di politica estera ribadita anche con questa sua seconda presidenza, nonostante il recente rebranding del dipartimento della Difesa in «dipartimento della Guerra».
Dopo la svolta su Gaza, perfino due bastioni del pensiero liberal e della «resistenza» al Trumpismo rendono omaggio al tycoon e alla sua aspirazione al Nobel per la Pace. «Se Donald Trump riuscisse a ottenere un cessate il fuoco, il ritiro israeliano da Gaza, il ritorno degli ostaggi israeliani, e questo aprisse la strada ai negoziati alla soluzione dei due stati per due popoli - scriveva prima dell'annuncio di mercoledì Thomas Friedman del New York Times - Trump non meriterebbe solo il Premio Nobel per la Pace, ma anche il Premio Nobel per la Fisica e la Chimica». Poche ore dopo, ad annuncio fatto, sempre il Times, con un'altra firma di peso, quella di David Sanger, ribadiva che l'accettazione da parte di Israele e Hamas della prima fase del piano per Gaza potrebbe essere per Trump la «strada verso il Premio Nobel per la Pace». E ancora, «se l'accordo dovesse reggere, Trump potrebbe legittimamente rafforzare la sua pretesa di essere un pacificatore degno del Premio Nobel per la Pace», ha scritto l'Editorial Board del Washington Post.
Voci autorevoli che si sono unite al coro dei leader internazionali, da Javier Milei, al presidente israeliano Herzog allo stesso Netanyahu che in queste ore stanno rilanciando la candidatura del tycoon. Paradossalmente, l'unico a non affrontare l'argomento, dopo avere rivendicato per mesi di essere il candidato migliore per avere messo fine ad almeno «sette guerre» (l'elenco prevede tra l'altro Armenia-Azerbaigian, India-Pakistan, Israele-Iran, Thailandia-Cambogia e Ruanda-Congo) è lo stesso Trump. Il presidente è notoriamente scaramantico, forse non vuole sfidare la sorte a poche ore dall'annuncio (oggi, alle 11 a Oslo. Forse, non si fa più illusioni, almeno per quest'anno, di emulare gli altri quattro presidenti Usa che hanno ricevuto il Premio: Theodore Roosevelt (1906), Woodrow Wilson (1919), Jimmy Carter (2002) e Barack Obama (2009). Quest'ultimo, più sulla «fiducia» che per meriti reali. Negli ultimi giorni, le quotazioni di Trump tra i 338 candidati al Premio sono salite.
A giudicare dai bookmakers, il presidente Usa se la gioca con la rete umanitaria Emergency Response Rooms del Sudan e con la vedova di Alexei Navalny, Yulia Navalnaya. A pesare, nella decisione del Comitato del Nobel potrebbero essere più che le notizie che giungono dal Medioriente, quelle provenienti dagli Stati Uniti, dove i Democratici denunciano la «guerra interna» scatenata da Trump nelle città Usa dove ha inviato la Guardia Nazionale a sostegno delle retate contro gli immigrati irregolari e la criminalità locale.
Oppure la mancata promessa di fermare la guerra in Ucraina. Non che Trump non ci abbia provato, sebbene a modo suo. Ma, come ama ripetere il tycoon, «per ballare il tango bisogna essere in due». In tre, in questo caso. E finora, Vladimir Putin si è sempre sottratto all'invito.