
Carlo Nordio non ha detto niente di particolarmente nuovo ieri, in un'intervista alla Stampa ma le sue parole assumono una luce nuova perché forse si comincia davvero a credere, o a capire, che il Guardasigilli fa sul serio, che tutto il governo fa sul serio, che la separazione delle carriere non solo si farà, ma sarà l'antipasto di una riforma «copernicana» come lo doveva essere l'azzoppata riforma «Vassalli-Pisapia» del 1989, e che, in teoria, tra pecette e rabberciamenti, è quell'ibrido inquisitorio/accusatorio in uso oggi. «La riforma del codice di procedura penale è allo studio», ha detto Nordio, «e mira a ripristinare i principi liberali voluti da Giuliano Vassalli, eroe delle Resistenza e non sospetto di autoritarismi, il cui codice è stato imbastardito e snaturato».
E vanno chiarite due cose. La prima è che il Codice Vassalli, sistema teoricamente accusatorio, cioè all'anglosassone, avrebbe dovuto avere un suo coronamento proprio nella separazione delle carriere, riforma che tuttavia non si fece per molteplici ragioni storiche e politiche, diciamo così. Il secondo problema è tradurre, ora, quei sostantivi «imbastardito e snaturato» riferiti al Codice Vassalli: e qui gli addetti ai lavori sanno bene di che cosa si parla. Quel Codice si proponeva, nelle intenzioni, pari dignità giuridica tra accusa e difesa, custodia cautelare come extrema ratio, segretezza delle indagini, pubblicità del processo e, soprattutto, prova che doveva formarsi rigorosamente in aula. Ecco perché quel Codice fu fatto a pezzi: per la stessa ragione, ossia, per cui molti magistrati a quel tempo lanciarono allarmi contro un neo Codice che paventavano come troppo garantista, e basti che il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi (il più alto magistrato d'Italia) all'inaugurazione dell'anno giudiziario 1992 definì le nuove norme addirittura «ipergarantiste», e lo stesso facevano i cronisti di giudiziaria. Poi sappiamo com'è andata: il mondo al contrario. Il totale stravolgimento delle velleità del Codice Vassalli, con la complicità della classe politica e il dolo della magistratura, divenne una chiave di volta della prima e fondamentale parte delle varie inchieste Mani pulite del Paese. Nei fatti, poiché il fine giustificava i mezzi, il Codice fu neutralizzato e poi ridestato come un Frankenstein inquisitorio/accusatorio gradito alle stesse toghe che l'avevano contestato: ma che non aveva più nulla delle intenzioni originarie del legislatore. A una Mani pulite usata come ariete, infatti, si affiancò una contro-legislazione operata dall'alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida fatta da una classe politica spaventata dalla strage di Capaci (la riforma dell'articolo 371, che consentiva l'arresto per reticenza) ristabilirono e rafforzarono lo strapotere delle indagini preliminari. Altro che processo accusatorio alla Perry Mason, altro che parità tra avvocato e pubblico ministero, altro che prova che si formasse rigorosamente in aula: ai pubblici ministeri tornò a essere sufficiente estrarre verbali d'interrogatorio e riversarli meramente in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all'accusa. La totale discrezionalità dei pm prese a dipendere, cioè, dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative che l'indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.
La riforma costituzionale dell'articolo 513, nel 1999 - cioè ben dieci anni dopo l'entrata in vigore del Codice - ristabilì almeno il principio chiave che era stato polverizzato: «la colpevolezza dell'imputato», era l'assunto, «non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi si è sempre volontariamente sottratto
all'interrogatorio». In altre parole, è nel processo che una testimonianza doveva diventare una prova, non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia, e neppure sui giornali, come in una Garlasco qualsiasi.