
Ci risiamo. L'analisi della presunta "crisi del turismo" è un genere letterario che chiunque abbia esercitato a lungo la professione giornalistica conosce bene. Riemerge puntualmente ogni estate, quando le notizie si diradano e le pagine dei giornali devono comunque riempirsi.
In realtà, queste narrazioni raramente poggiano su dati concreti. Più che una seria indagine di mercato capace di analizzare tendenze di consumo, punti di forza e fragilità del sistema si trasformano spesso in operazioni dal retrogusto politico. Non di rado, nei reportage sugli "ombrelloni vuoti", il "caro pizza" o il "prezzo dello spritz" affiora un malcelato compiacimento: quello di descrivere un Paese impoverito, con famiglie costrette a restare a casa, vittime della presunta rapacità di commercianti, albergatori e gestori di stabilimenti balneari, elevati a nuova "classe sfruttatrice" del sottoproletariato vacanziero.
Il tradizionale "piove, governo ladro" diventa così "ombrellone vuoto, governo incapace".
Negli ultimi anni, tuttavia, questa letteratura agostana si è arricchita di un ulteriore elemento di contraddizione. A giugno e luglio, sugli stessi quotidiani che ad agosto denunciano il vuoto sulle spiagge, si parla di overtourism: orde di visitatori che come nuovi barbari affollano le città d'arte, invadono le località balneari e percorrono in massa i sentieri delle Dolomiti.
I due fenomeni, lungi dall'essere mutuamente esclusivi, esistono davvero e convivono. Una pur superficiale analisi basterebbe a dimostrare che sono entrambi sintomi di un mercato in profonda trasformazione, destinato a mutare ancora di più con l'avvento dell'intelligenza artificiale e l'ampliarsi delle opzioni di viaggio a disposizione.
Se si volesse essere intellettualmente onesti, bisognerebbe riconoscere che il Ministro del Turismo, Daniela Santanchè, ha spinto il Governo a investire nel settore, ben consapevole della concorrenza sempre più agguerrita che preme sul sistema-Paese, e ha sollecitato regioni, enti locali e categorie economiche a cogliere le novità di un mercato in continua evoluzione.
Non è con gli strumenti della nostalgia "com'erano belle le vacanze d'agosto a mezza pensione" che si affronta la competizione globale, ma con le leve del marketing moderno, sapendo che il turismo non è più terreno esclusivo dell'artigianalità familiare e della creatività estemporanea, bensì campo di gioco dove si confrontano grandi capitali, innovazione tecnologica e brand internazionali capaci di orientare gusti e comportamenti.
Il dato di contesto è inequivocabile: il turismo mondiale è un settore in espansione. Nel 2023 ha raggiunto il 10% del PIL globale, crescendo di quasi un punto percentuale, con un incremento di 1,1 trilioni di dollari nella spesa per il tempo libero. Pensare che si tratti di un comparto in recessione significa falsare l'analisi o, peggio, piegarla a logiche propagandistiche o a nostalgie crepuscolari per tempi che non torneranno.
Se vogliamo affrontare seriamente la questione, dobbiamo partire dagli errori e sono molti.
Primo errore: considerare i flussi turistici scontati e stabili. Ogni direttore marketing sa che, per conquistare nuove quote di mercato o semplicemente mantenerle, occorre investire in comunicazione e promozione in misura proporzionale al valore dell'obiettivo. Vale per i prodotti sugli scaffali del supermercato come per le destinazioni turistiche in un catalogo globale. L'Italia, titolare di una quota rilevante del turismo mondiale, deve incrementare i propri investimenti e la propria creatività se vuole difendere questa posizione.
Molti amministratori pubblici e imprenditori privati sembrano non cogliere questa evidenza, confidando che la bellezza del territorio sia di per sé sufficiente.
Secondo errore: il deficit tecnologico.
Il digitale è oggi la principale piattaforma di orientamento e acquisto del viaggiatore. Presidiare l'intelligenza artificiale, che influenza scelte e destinazioni, garantire la presenza nei grandi marketplace online, costruire infrastrutture telematiche solide e presidiare i social media sono ormai attività imprescindibili. L'esaltazione del "piccolo" e del "locale" può avere fascino poetico, ma è economicamente insufficiente nell'era globale.
Terzo errore: ignorare il cambiamento delle abitudini di consumo. Il turista di oggi non cerca più la vacanza standardizzata dei nonni, nella stessa pensione a pensione completa. Vuole esperienze personalizzate, calibrate sui propri interessi, proprio come costruisce il proprio palinsesto televisivo o digitale.
Quarto errore: sottovalutare il peso del brand. In un mercato globalizzato, notorietà e reputazione sono asset determinanti. Costruire un marchio forte che sia un'azienda o una destinazione è essenziale per competere.
Queste sono solo le linee generali. La verità è che il turismo, a livello globale, cresce; e, a conti fatti, probabilmente cresce anche in Italia, nonostante la narrativa del declino. Ciò che accade è un riassestamento: si svuotano alcune località perché se ne riempiono altre.
Oggi non basta piantare un ombrellone in spiaggia, se a Mykonos o Saint-Tropez i beach club propongono dj set e feste con artisti di richiamo. Non basta offrire un letto, quando l'ospite cerca un'esperienza unica. Non basta sfamare il cliente, se la ristorazione dal piatto stellato al panino gourmet è diventata status symbol e codice identitario.
Confondere queste dinamiche con l'analisi sociale, come spesso accade nei reportage estivi, significa distorcere la realtà.
È vero che una parte degli italiani fatica a permettersi una vacanza, che i salari restano deboli e il mercato del lavoro
penalizza i più giovani. Ma trasformare l'"indice dell'ombrellone" in parametro dello stato di salute dell'economia e, peggio, in prova della proletarizzazione del ceto medio, significa fare propaganda travestita da cronaca.