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Un debutto senza colpi a effetto (con l'ombra di manovra e Pnrr) Meloni, la "conversione" sull'Ue e la dottrina del temporeggiare

Archiviata la crisi con la Francia (presto andrà all'Eliseo) Prudenza su giustizia, balneari e migranti. Slitta Kiev

Un debutto senza colpi a effetto (con l'ombra di manovra e Pnrr) Meloni, la "conversione" sull'Ue e la dottrina del temporeggiare

Ancora 48 ore e lunedì Giorgia Meloni taglierà il traguardo dei primi cento giorni di governo. Cento esatti da quando il 22 ottobre il primo governo italiano guidato da una donna ha giurato al Quirinale. Tempo di bilanci, dunque. Nonostante quello della leader di Fratelli d'Italia sia stato l'inizio di legislatura più insolito dell'Italia repubblicana, visto che le elezioni in pieno autunno erano cosa che non si vedeva da ben 103 anni (le ultime risalgono al 1919, cioè al Regno d'Italia). Un governo, quello di Meloni, che si è trovato subito alle prese con due scadenze pressanti e non rinviabili: non solo la legge di Bilancio da approvare entro il 31 dicembre per evitare l'esercizio provvisorio, ma pure gli impegni del Pnrr per il 2022 alcuni dei quali arenatisi a luglio dopo la crisi di governo anch'essi da completare entro fine anno.

Non è un caso, quindi, che quelli di Meloni siano stati cento giorni senza la consueta luna di miele che accompagna i primi passi di quasi tutti i governi. E infatti non c'è stato alcun provvedimento bandiera o iniziativa che segnasse il passo del ritorno a Palazzo Chigi di un esecutivo con un'identità politica definita (non accadeba da oltre un decennio), ma solo un'immersione rapida nell'ordinaria amministrazione.

Una partenza senza sprint, condita subito da un inciampo diplomatico con Parigi. In due parti. Prima l'incontro a Roma tra Meloni ed Emmanuel Macron il giorno della cerimonia della campanella con Mario Draghi, faccia a faccia accompagnato da una serie di incomprensioni (organizzative e logistiche). Poi la polemica sulla Ocean Viking. Una tensione che in questi oltre tre mesi è andata rientrando, tanto che da Parigi è finalmente arrivato l'invito per un bilaterale all'Eliseo. A Palazzo Chigi si ragiona sul quando, ma non dovrebbe essere nell'immediato. Mentre venerdì prossimo Meloni sarà a Berlino per incontrare il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Uno dei tanti faccia a faccia che la premier ha concentrato nei prossimi giorni. Oggi sarà in Libia, lunedì vedrà a pranzo a Roma il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, mentre mercoledì sarà la volta della presidente dell'Ungheria Katalin Novak (in visita in Italia), fedelissima di Viktor Orban. Non dovrebbe essere invece la prossima settimana la visita a Kiev, mentre è in fase di organizzazione un incontro a Varsavia con il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Insomma, una politica estera asimmetrica, in continuità con il passato sulle scelte economiche e in scia all'asse franco-tedesco, ma con un occhio al gruppo di Visegrad, nonostante come collocazione geopolitica Polonia (filoatlantica e filoucraina) e Ungheria (filorussa e filocinese) siano distanti.

Agenda a parte, sul fronte europeo i primi cento giorni hanno mostrato una Meloni decisamente dialogante. Come era inevitabile che fosse, visto che una cosa è stare all'opposizione e altra è avere responsabilità di governo. Poche o nulle, dunque, le frizioni con Bruxelles, anche grazie ai buoni uffici del ministro per gli Affari europei e il Pnrr, Raffaele Fitto. Messo da parte il lessico sovranista, Meloni ha provato una prima accelerazione sulla questione Pos e migranti, per poi rientrare in carreggiata. E passare dal blocco navale alla cosiddetta dottrina-Minniti, con ripetute interlocuzioni con Bruxelles in vista del Consiglio straordinario Ue sull'immigrazione in programma il 9 e 10 febbraio (ed è anche per questo che venerdì sarà a Stoccolma, visto che la Svezia è presidente di turno dell'Unione). E anche sul Mes, su cui Meloni continua a nutrire personalmente grandi perplessità, il governo si è attestato su una linea europeista, evitando di mettere l'Italia nella scomoda posizione di essere l'unico Paese Ue a dirsi contrario (circostanza che ne avrebbe peraltro bloccato la ratifica).

Sul fronte interno, invece, archiviata una legge di Bilancio su cui Meloni ha avuto pochi margini di manovra e dimenticato lo scivolone del decreto rave, la scelta è di muoversi con prudenza. Aprire tavoli di confronto su ogni dossier, discutere le singole questioni e prendere tempo. È andata così sulla riforma della giustizia, anche se un cronoprogramma dei diversi interventi (separazione delle carriere, intercettazioni, abuso d'ufficio e piano carceri) dovrebbe arrivare nelle prossime settimane. E pure sui balneari tema sentito da un pezzo dell'elettorato di centrodestra la scelta è stata quella di andare avanti con una proroga di quattro mesi e indicare un gruppo di lavoro. Idem sull'autonomia differenziata. Nonostante il pressing della Lega, infatti, l'impressione non è certo che il governo abbia fretta. Così come sulla Rai, dossier che Meloni pensava inizialmente di affrontare a tambur battente e che ha subito un rallentamento (anche se dopo Sanremo potrebbero esserci novità).

Cento giorni di cautela, insomma. Con il rischio che con il passare dei mesi si avvicini l'inevitabile strettoia cui vanno incontro tutti i governi, politici e non. Se la Lega dovesse uscire ammaccata dal voto in Lombardia, infatti, Meloni potrebbe trovarsi presto ad avere a che fare con alleati davvero riottosi. Senza sottovalutare il fronte interno, quella faida romana che si sta consumando dentro Fratelli d'Italia e che non è escluso possa concludersi con la nascita di una vera e propria corrente all'interno del partito (anche se ancora ieri Fabio Rampelli ripeteva che «non c'è alcuna fronda», ma «solo dialettica interna»).

Basta poco, insomma, a trasformare la prudenza in pantano.

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