
Il boom degli anni Sessanta e l'inverno demografico degli anni Duemila presentano il conto all'Inps: a causa di una "trasformazione demografica" senza precedenti, nei prossimi dieci anni sei milioni di persone lasceranno il lavoro e sarà impossibile sostituirli tutti, a meno che non si "allarghi" la platea agli 1,4 milioni di Neet che oggi non vogliono né studiare né lavorare e alle oltre 7,8 milioni di donne tra i 15 e i 64 anni. Sono valutazioni simili a quelle già ipotizzate da Istat, Ocse, Bankitalia e Ragioneria generale. Serve quel "patto di solidarietà generazionale" che aveva chiesto sul Giornale alla fine del 2024 il presidente dell'Inps Gabriele Fava, assieme a una serie di scelte oculate su occupazione, anticipi ed età di pensionamento.
A lanciare l'ennesimo allarme è stato il presidente Inapp Natale Forlani davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla transizione demografica: "Le prestazioni sociali costano 587,5 miliardi, pari al 59,3% della spesa corrente", con troppe pensioni di vecchiaia da pochi spicci (2.259.766 nel 2023) che vanno integrate almeno al minimo. "Ma entro il 2060 la platea occupazionale cambierà radicalmente", con i nuovi nati scesi dai 420.084 del 2019 a circa 370.000 nel 2024 "la popolazione in età da lavoro (20-64 anni) si ridurrà del 34%" e guadagnerà molto meno di chi l'ha preceduta (già oggi in media è il 13,8% in meno), con "inevitabili conseguenze su Pil, welfare e spesa pubblica". In gergo si chiama "indice di dipendenza demografica": quest'anno ci sono 134mila studenti in meno tra i banchi, da qui al 2035 la popolazione scolastica scenderà sotto i 6 milioni di unità. Manca il personale capace di sostituire chi va a riposo, la spesa pensionistica aumenterà del 17%". Gli over65 non autosufficienti sono già 4 milioni - di cui solo il 7,6% è assistito nelle Rsa e il 30,6%è in assistenza domiciliare integrata - con numeri che cresceranno ancora, parallelamente ai posti di lavoro che richiederà il mercato sempre più fondamentale dell'age management.
Nel delicato equilibrio ci sono le luci e anche le ombre. Mentre la politica si interroga su "scorciatoie" previdenziali e bonus per chi vuole lavorare oltre i 72 anni, le contromisure rispetto all'inverno demografico tardano a dispiegare i loro effetti. Ai circa 15,7 milioni di pensionati viene erogato un assegno medio di 1.884 euro. Il numeretto magico, spiegano gli esperti, è 1,5. Vuol dire che per ogni pensionato serve un lavoratore "e mezzo". Nel 2023 eravamo a quota 1,4636, appena sotto ma la forbice si sta comunque restringendo, così come quella della maternità, oggi all'1,18 figli per donna, al di sotto del precedente minimo storico di 1,19 del 1995.
Il 54,9% degli occupati ha più di 45 anni, il picco dell'invecchiamento della nostra popolazione verrà toccato tra 20 anni nel 2045. Da molto tempo ormai nel Mezzogiorno si pagano più pensioni che stipendi, un sorpasso che secondo una recente analisi della Cgia di Mestre è destinato a compiersi anche nel resto d'Italia. Dei sei milioni di lavoratori in uscita, almeno il 75% lavora al Nord. Tra le province più squilibrate - più pensionati che lavoratori - secondo i dati 2022, c'è Lecce (-97mila) seguita da Napoli (-92mila), Messina (-87mila), Reggio Calabria (-85mila) e Palermo (-74mila). Non a caso il Sud ospita la maggior parte degli inattivi, con punte del 23% in Campania e Sicilia.
Si tratta di persone che accetterebbero salari striminziti (il 21% fino a 600 euro, il 27,8% fino a 999 euro) pur di lavorare e pagare i contributi. Eccola, l'unica exit strategy che mette d'accordo ottimisti e catastrofisti.