Falcone voleva carriere separate per pm e giudici. "Lo chiede il nuovo codice, hanno funzioni diverse"

Il coraggio della toga ostracizzata da Anm e Csm perché avrebbe indebolito le correnti definite "macchine elettorali". Berlusconi: la mafia deturpa l'Italia

Falcone voleva carriere separate per pm e giudici. "Lo chiede il nuovo codice, hanno funzioni diverse"

«Il referendum ha consentito di accertare che la stragrande maggioranza dell'elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità, e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati». Era il 5 novembre 1988, a Milano Giovanni Falcone leggeva la sua relazione davanti ai suoi colleghi. Il referendum del 1987 che avrebbe dovuto introdurre la responsabilità civile dei magistrati ottenne l'83% dei sì venne annacquato dalla «legge Vassalli» numero 117, che prevede che sia lo Stato a pagare se un magistrato è colpevole di dolo o di colpa grave.

A distanza di 35 anni gli italiani sono nuovamente chiamati a riformare la giustizia per via referendaria. Il nodo è la separazione delle funzioni - e quindi delle carriere - di toghe inquirenti e giudicanti, come avrebbe voluto Falcone. Che già prima che il nuovo Codice di procedura consegnasse al pm il ruolo di dominus dell'azione giudiziaria avvertiva i rischi di mancata terzietà del giudice: «Le attitudini e i compiti specifici del pm richiesti dal nuovo modello di processo penale comportano una sua specifica formazione professionale, che solo in parte coincide con quella del giudice e in punti qualificanti ne diverge nettamente. Diverse funzioni e attitudini, habitus mentale, capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro il giudice».

Bestemmie per le correnti dell'Anm «che si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm», scriveva Falcone nel 1990. La sua visione lungimirante - come dimostra drammaticamente la ricostruzione di Luca Palamara - era malvista da chi temeva di perdere potere e prestigio, assieme all'automatismo delle carriere e alla pretesa di considerare il magistrato una sorta di superuomo infallibile e incensurabile solo perché ha vinto un concorso. L'alibi per impedirlo? Il solito mantra: «Così si mette a rischio l'autonomia e l'indipendenza della magistratura». Un'obiezione alla quale Falcone rispose così: «I valori di autonomia e indipendenza non equivalgono a sostanziale irresponsabilità di un pm, reso così da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività», altra misura in discussione alle Camere.

Di più: «Piero Calamandrei si era dichiarato favorevole a un Pg di Cassazione in Consiglio dei ministri a titolo consultivo sulla giustizia». Idee, contributi al dibattito che la magistratura non volle raccogliere. E sì che Falcone aveva anche capito che la riforma del codice avrebbe potuto creare protagonismi eccessivi, alla Tonino Di Pietro. Per questo predicava «non un pm sotto il controllo dell'esecutivo» ma procure «autonome, indipendenti, efficiente e responsabili della loro attività» limitando i rischi di sovraesposizione, iperattivismo e iperpersonalizzazione oggi molto diffusi tra funzionari di polizia e magistrati». Una follia, per l'Anm, che gliel'avrebbe fatta pagare. Ad esempio demonizzando il suo disegno di Superprocura e organizzando uno sciopero (benedetto anche da Oscar Luigi Scalfaro, che mandò un messaggio di solidarietà). Alla manifestazione partecipò Elena Paciotti, che poi ne sarebbe divenuta presidente. La stessa Paciotti il 19 gennaio 1988 al Csm sostenne la candidatura di Meli contro quella di Falcone per la nomina a procuratore capo di Palermo. E il cerchio si chiuse.

Oggi gli smemorati e i cronisti in malafede puntano il dito contro Silvio Berlusconi e le infamanti accuse di essere il mandante delle stragi del 1992, già ampiamente smontate. «I nostri governi hanno fatto della lotta alla criminalità organizzata una priorità», dice l'ex premier, ricordando il sacrificio del giudice per mano della mafia, una sciagura che secondo Berlusconi «deturpa l'Italia, allontana gli investimenti e scoraggia chi fa impresa». La riforma della giustizia che aveva in mente il centrodestra, messa a punto dall'ex Guardasigilli Angelino Alfano, fallita dopo la rovinosa caduta dell'esecutivo nel 2011.

Quella Castelli, molto simile, saltò la notte tra il 27 e il 28 luglio 2007, tre giorni prima che entrasse in vigore, grazie a un accordo in extremis tra il ministro della Giustizia Clemente Mastella e l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi, ideologo di Md - come si legge nel libro Il caso Genchi di Edoardo Montolli - nel bel mezzo del caso Why Not. Qualche mese dopo un'inchiesta sfiorerà lo stesso Mastella e contribuirà a far cadere il secondo governo Prodi. Segno che le toghe non fanno prigionieri. Neanche con gli alleati.

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