Non solo il fronte interno, ma anche quello europeo. Una combo che da giorni preoccupa non poco Giorgia Meloni (foto), ben consapevole di quanto possa essere pericoloso avere aperti contemporaneamente due dossier così delicati come Giustizia e Pnrr. Sul primo, la premier sta meditando di abbassare i toni, visto che il duro comunicato dei giorni scorsi a firma «fonti di Palazzo Chigi» non ha solo provocato la reazione dell'Anm, ma pare abbia lasciato perplesso pure Sergio Mattarella. Con cui la premier dovrebbe confrontarsi già domani, quando è attesa al Quirinale per riferire gli esiti del vertice Nato in corso a Vilnius in queste ore. L'occasione non solo per un ragionamento complessivo sul clima di tensione che si è venuto a creare tra governo e magistrati (ieri il Guardasigilli, Carlo Nordio, è tornato a dire che «la politica» non deve «inchinarsi alla magistratura»), ma anche per valutare la riforma della Giustizia che è all'esame degli uffici giuridici del Colle per la controfirma presidenziale. Che, in verità, in questa fase - quella dell'autorizzazione a presentare alle Camere un disegno di legge - è un atto dovuto. Il che, però, non significa che Mattarella non farà presente a Meloni le criticità di una riforma che potrebbe avere contraccolpi anche sul Pnrr. Efficienza e riduzione dei tempi processuali, infatti, sono tra i presupposti del Piano nazionale di ripresa e resilienza e interventi che comportino, per esempio, una riorganizzazione di uffici giudiziari che sono strutturati in un certo modo ormai da quasi ottanta anni potrebbe essere un passaggio delicato. Sopratutto se la riforma dovesse continuare a trovare la netta opposizione della magistratura. Un fronte, quello della Giustizia, che comprende anche le inchieste che hanno coinvolto la ministra Daniela Santanché e il sottosegretario Andrea Delmastro. Due situazioni molto diverse, ma che - insieme all'accusa di stupro a carico del figlio di Ignazio La Russa - stanno decisamente condizionando il dibattito politico. Ovviamente, a danno del governo. Perché, ammette il ministro Luca Ciriani nella buvette di Montecitorio, «stare tutti i giorni a parlare della Santanché o di guai giudiziari offusca l'azione di un esecutivo che invece sta continuando a lavorare a pieno regime come sempre».
Di qui, la scelta di Meloni di giocare in contropiede sul secondo e altrettanto delicato fronte, cioè il Pnrr. Il fatto che Bruxelles continui a non sbloccare la terza rata da 19 miliardi sta diventando infatti un caso, nonostante - è il non detto di cui Meloni è però intimamente convinta - quei 55 obiettivi su cui oggi la Commissione avanza obiezioni siano stati messi a terra dal governo guidato da Mario Draghi. «Prima l'Europa non avanzava una obiezione che fosse una, ora si sono improvvisamente scoperti estremamente puntigliosi», dice un capo di gabinetto che è da anni ai vertici dell'amministrazione.
Di qui, la scelta di sparigliare. Per «dimostrare» che «il governo è in palla e al lavoro» e che «è possibile trattare con Bruxelles e ottenere modifiche», spiega Ciriani. Così, in una conferenza stampa ad hoc, il ministro Raffaele Fitto rilancia e butta la palla verso la quarta rata (da 16 miliardi). L'uomo-Pnrr del governo spiega che c'è già l'intesa formale con Bruxelles per modificare 10 dei 27 obiettivi previsti e sottolinea come l'Italia sia il primo Paese europeo a chiedere la quarta rata, «intera e non immaginando un definanziamento». «Se noi siamo in ritardo, gli altri che situazione anno?», chiosa Fitto.
Sempre con lo stesso non detto: sulla quarta rata il governo ha avuto i margini per muoversi in autonomia e i tempi saranno rispettati, sulla terza gli obiettivi erano già decisi e l'esecutivo - insediato da appena un mese e già alle prese con la manovra da approvare entro il 31 dicembre - non ha avuto la possibilità di intervenire in alcun modo.
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