
Sono passati 1000 giorni dall'insediamento del governo Meloni. Un traguardo che spingerà analisti e commentatori a stilare un bilancio delle politiche approvate, delle riforme realizzate, delle promesse mantenute, nel tentativo di spiegare la tenuta dell'esecutivo. Ma oggi quella logica si è rovesciata. Il governo non è stabile per ciò che ha fatto, ma perché l'immagine di Giorgia Meloni "funziona". Il Presidente del Consiglio continua a godere di un ampio apprezzamento personale, superiore a quello della sua maggioranza e dei singoli ministri. Sono il suo profilo pubblico, il suo stile comunicativo e la sua narrazione identitaria a tenere insieme l'intero edificio nella percezione collettiva.
In altri tempi, la convinzione era che fossero i risultati a rafforzare la leadership. Oggi è la leadership a dare forza ai risultati, a irradiarli di una luce favorevole. Meloni è la prima garanzia dell'azione di governo. Prima ancora che le politiche siano valutate nel merito, vengono lette attraverso la lente della sua figura. È un cambio di paradigma profondo, che segna il passaggio da una politica dei contenuti a una politica dei simboli incarnati.
La personalizzazione della politica non è una novità assoluta, ma oggi ha raggiunto una nuova intensità. La crisi dei corpi intermedi, la disintermediazione digitale e la ricerca continua di autenticità hanno trasformato il leader in una marca, in un "dispositivo di fiducia" che precede i contenuti e garantisce per essi. Giorgia Meloni ha costruito negli anni un brand politico fortemente riconoscibile, e oggi è proprio quel brand a legittimare e in parte a proteggere ogni scelta di governo. In sintesi, non è il governo ad avere consenso, è la presidente del Consiglio ad averlo. E questo consenso si estende per osmosi a tutto ciò che tocca, comprese le decisioni più divisive. In questo scenario, la comunicazione non è più solo centrale, è essenziale e fondante.
Non più, quindi, come semplice racconto di ciò che si fa, ma come premessa narrativa che rende credibili le azioni. Il rapporto con i cittadini non passa più dai partiti o dai risultati tangibili. Passa dalla tenuta dell'immagine del leader, dalla sua credibilità simbolica e dalla reputazione costruita nel tempo. Se quella figura regge, tutto il resto regge. Anche gli errori, i ritardi, i compromessi possono essere assorbiti, purché la percezione del leader resti intatta.
Ogni messaggio, ogni gesto, ogni evento istituzionale è calibrato per rafforzare l'identità della leader, più che per illustrare il contenuto delle politiche. La comunicazione non segue l'azione. La precede, la prepara e la legittima. E lo fa trasmettendo valori, emozioni e caratteristiche della persona. È Giorgia che dà forza a Meloni. E di conseguenza a tutto il governo.
Sembra averlo capito Matteo Renzi, probabilmente il leader d'opposizione con più fiuto politico. Con il suo recente libro totalmente "dedicato" a Meloni, ha scelto di colpire non tanto le decisioni dell'esecutivo, quanto l'aura personale della premier. Ha puntato sulla narrazione, cercando di incrinarne la coerenza, l'autenticità, la tenuta identitaria. Non una critica tecnica, quindi, ma una sfida alla credibilità. Perché oggi, più che in passato, abbattere una linea politica significa abbattere la persona che la incarna.
Tuttavia, l'operazione non sta funzionando. Perché la credibilità di chi critica conta quanto quella di chi governa, e Renzi, da tempo, non è più percepito come un leader in grado di contare su una fiducia diffusa.
I mille giorni di Meloni ci raccontano,
dunque, soprattutto questo: non è la stabilità del governo a rafforzare il leader, è la stabilità del leader a tenere in piedi il governo. O, se vogliamo, non è il governo che racconta Meloni. È Meloni che dà senso al governo.