L'ultima speranza degli "irriducibili": uno stop del Colle. Ma non ci sarà

La legge ha già superato lo scoglio dei fondi. L'obiettivo è il varo definitivo entro l'anno

L'ultima speranza degli "irriducibili": uno stop del Colle. Ma non ci sarà
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Mattarella salvaci tu: è questa, sottovoce ma non troppo, la speranza che circola tra le correnti organizzate dei giudici italiani all'inizio di una settimana importante per le sorti della giustizia. La chiamata alle armi che i vertici dell'Associazione nazionale magistrati hanno lanciato sabato contro il governo di Giorgia Meloni e il suo ministro della Giustizia Carlo Nordio non sembra avere aperto crepe nella maggioranza. Su alcune delle innovazioni più indigeste alle toghe il centrodestra appare compatto (o quasi). Così l'Anm punta le sue carte sulle obiezioni che potrebbero venire dal Colle nei prossimi giorni, quando il disegno di legge di Nordio verrà sottoposto a Mattarella prima di approdare in commissione Giustizia al Senato.

Ma che le obiezioni del capo dello Stato arrivino davvero è tutto da vedere. Uno degli scogli maggiori, la copertura finanziaria della legge, è stato superato dall'okay della Ragioneria dello Stato. Le toghe concentrano le loro aspettative soprattutto sul reato di abuso d'ufficio, la cui cancellazione - secondo loro - metterebbe l'Italia sotto accusa davanti all'Europa. Solo nei prossimi giorni si capirà se il Presidente condivide le loro preoccupazioni.

Se dal Quirinale non verranno appunti, il percorso del disegno di legge non si annuncia particolarmente accidentato. La abrogazione dell'abuso d'ufficio, reato-spauracchio dai contorni assai vaghi, è perorata anche da amministratori locali della sinistra; le misure di garanzia contro le manette facili, con la decisione sul carcere affidata a tre giudici e l'interrogatorio obbligatorio prima dell'arresto, sono considerate del tutto compatibili con le esigenze di sicurezza, visto che non incidono per nulla sulle possibilità di arresto in flagranza per i reati di maggiore allarme sociale. Qualche rischio in più potrebbe correrlo la stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni, cara soprattutto a Forza Italia: in passato Giulia Bongiorno, responsabile di settore della Lega e oggi presidente della commissione Giustizia al Senato, aveva manifestato i suoi timori su un «blackout« dell'informazione. Ma su questo tema, ancora più che sul resto della legge, Nordio può contare sul sostegno esterno di Italia Viva e di Azione.

Il governo punta a incardinare la legge al Senato prima della pausa estiva per chiudere in tempi brevi al rientro e passare poi la palla alla Camera; ottenere il varo definitivo entro l'anno è obiettivo ambizioso ma non impossibile. Ben sapendo che l'approvazione della legge Nordio non chiuderebbe affatto la partita sulla giustizia, dove una serie di interventi meno appariscenti ma più sostanziali hanno davanti a sé strade più impervie.

Paradossalmente, appaiono impantanate misure che non hanno neanche bisogno del voto del Parlamento, perché già contenute nella delega votata ai tempi del ministro Cartabia. Servono solo i decreti attuativi per introdurre il fascicolo di valutazione del giudice, il voto anche degli avvocati nella valutazione delle promozioni dei magistrati, la riduzione delle toghe fuori ruolo, prestate a ministeri e organismi vari. Ma tutto va a rilento.

Poi c'è la riforma più simbolica di tutte, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che l'intera avvocatura italiana considera il primo passo per fare dal processo penale una battaglia ad armi pari. Per questo serve una riforma costituzionale, ci sono già quattro testi di cui tre identici, la strada sembrava aperta ma si è fermata quando Nordio ha annunciato per la fine dell'anno la presentazione di un disegno di legge costituzionale del governo.

E qualcuno ha letto questo allungamento dei tempi come un segno della cautela con cui guarda al tema Giorgia Meloni: la riforma dovrebbe poi essere sottoposta a referendum, e andrebbe a incrociare e forse a intralciare un'altra riforma costituzionale, con referendum annesso, cui la premier tiene molto di più: quella per il premierato, su cui la Meloni è convinta di incassare il sì degli italiani.

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