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Cappio finanziario sulle terre rare

Pechino sta "trasformando in arma" il suo quasi-monopolio su materiali cruciali per la transizione energetica e la difesa

Cappio finanziario sulle terre rare
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La narrazione secondo cui il dominio cinese sulle terre rare sia solo una questione geologica è fuorviante. Il vero vincolo e quello più difficile da spezzare è di natura finanziaria. Ursula von der Leyen lo ha detto chiaramente al G7: Pechino sta "trasformando in arma" il suo quasi-monopolio su materiali cruciali per la transizione energetica e la difesa. Ma tra il denunciare e l'agire c'è un abisso, che solo il capitale pubblico può colmare.

Le terre rare 17 elementi tra cui neodimio, cerio e lantanio sono tutt'altro che rare nel sottosuolo. A renderle "rare" è la lavorazione: un processo industriale complesso, costoso e a basso margine, che richiede fino a 50 fasi di raffinazione per separare i singoli elementi. Il paradosso è che la domanda globale è ridotta 3,5 miliardi di dollari nel 2024, contro i 300 miliardi del rame ma allo stesso tempo strategica. Un'auto elettrica può usare un solo chilogrammo di terre rare, ma senza quel chilo il motore non gira. Non parliamo poi della Difesa, tema a me caro: sono necessari circa 418 kg di terre rare per far funzionare un F35, 2.600 kg per un cacciatorpediniere e 4.600 per un sottomarino.

Eppure, proprio perché poco redditizia, l'industria occidentale ha abbandonato la raffinazione per concentrarsi sull'estrazione, ben più remunerativa. La Cina ha fatto la scelta opposta: ha investito nella fase più costosa e meno profittevole della catena del valore, puntando sul controllo strategico. Oggi, Pechino raffina il 91% delle terre rare globali. I giganti cinesi del settore, come Shenghe Resources e China Rare Earth Group, operano con margini operativi del 5%, inaccettabili per società come Rio Tinto o BHP che viaggiano sopra il 30%.

Il nodo è tutto lì: senza sussidi pubblici, nessuna azienda occidentale può sopravvivere. Prendiamo il caso del neodimio-praseodimio (NdPr), chiave per le turbine eoliche e i motori EV: servono almeno 140-150 dollari/kg per far partire un impianto fuori dalla Cina. Oggi il prezzo è a 65 dollari/kg, dopo un crollo del 63% dai picchi del 2022.

A differenza del rame, poi, la raffinazione delle terre rare non genera sottoprodotti rivendibili, il che rende il modello ancora meno appetibile per gli investitori privati.

Qualcosa si muove: gli Stati Uniti hanno garantito un prezzo minimo di 110 dollari/kg per il NdPr di MP Materials per dieci anni. La Francia, insieme a Stellantis e investitori giapponesi, ha lanciato Caremag, impianto europeo da 250 milioni operativo dal 2027. La Corea del Sud ha dotato la propria agenzia mineraria statale di capitali pubblici per costruire riserve strategiche.

Il comune denominatore? Il supporto statale come garante di ultima istanza. Il prezzo minimo funziona come polizza contro la volatilità: se il mercato crolla, lo Stato compra. Ma è sufficiente? Secondo l'IEA, anche nello scenario più ambizioso, la quota cinese nella raffinazione scenderebbe solo al 73% entro il 2040.

Serve dunque una risposta: consorzi nazionali e sovranazionali, stoccaggio

strategico, investimenti in impianti di raffinazione. Difficile? Certo. Ma è il prezzo della libertà industriale. In quest'ottica il Fondo Nazionale sul Made in Italy può rappresentare per il Paese una grande opportunità.

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