"Non ci arrenderemo mai". Khamenei sfida l'Occidente

La Guida Suprema, sempre più in bilico, promette "conseguenze" in video. Ma il Paese sembra stanco del regime. E ha poche armi

"Non ci arrenderemo mai". Khamenei sfida l'Occidente
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Com'è difficile comandare da un bunker. Un bunker che somiglia maledettamente a una tomba, sprofondato com'è in una specie di abisso profondo quasi cento metri scavato in una zona ipersorvegliata nel nord di Teheran. E com'è difficile trasmettere energia e motivazione alle forze di un regime che l'odiatissimo "nemico sionista" è già riuscito a mettere alle corde in meno di una settimana di attacchi precisissimi e spietati, dei quali non si vede la fine. Se intorno a te, novanta metri più sopra, già si parla della tua successione, se non addirittura di una resa umiliante.

Dal fondo di quel bunker ti è chiaro che non è più nemmeno tanto importante se la tua cessione di poteri a un gruppo di più giovani Pasdaran abbia il crisma dell'ufficialità: è difficile, in queste condizioni, credere davvero di essere in tutti i sensi la Guida Suprema. Più difficile ancora se sei vecchio e stanco e se il Grande Satana americano alleato del Piccolo Satana israeliano ti minaccia apertamente di morte se non ti arrenderai senza condizioni, consegnando ai libri di Storia 46 anni di Repubblica Islamica dell'Iran.

Com'è difficile essere Ali Khamenei oggi. I nove minuti di video trasmessi dalla televisione di Stato con cui la Guida Suprema della teocrazia sciita iraniana ha respinto le pretese del nemico e lanciato il guanto di sfida chiamando alla guerra raccontano di una battaglia per la sopravvivenza che sembra persa in partenza. Nove minuti di minacce sibilate in tono monocorde da una specie di studio tetro, con una tenda grigiastra a fare da sfondo e l'immancabile ritratto del fondatore ayatollah Khomeini. Minacce che ricordano quelle che vomitavano invano altri dittatori della regione finiti poi molto male, come l'iracheno Saddam Hussein, il libico Gheddafi, il siriano Assad: "Non ci arrenderemo mai", "Il nemico ha commesso un grave errore di cui si pentirà amaramente", "Stiamo rispondendo con forza e non avremo nessuna pietà", "Qualsiasi intervento militare americano causerà a chi lo porta danni irreparabili".

Parole durissime, che tanto non costano nulla. Ma è il linguaggio del corpo a dire la verità. In quello che dovrebbe essere un rinvigorente appello alla battaglia Khamenei dimostra stanchezza e fatica, parla freddo, senza mai mostrarsi convinto, gli occhi fissi che sembrano guardare lontano dietro le lenti degli occhiali spessi da vecchio. Ed è inevitabile il paragone con i messaggi che nelle stesse ore diffonde il suo nemico Benjamin Netanyahu, che canta già vittoria con toni e sguardi assai più vivi e determinati.

Com'è difficile essere Ali Khamenei oggi, ora che il tuo alleato russo Vladimir Putin, al quale per tre anni hai fornito infiniti missili e droni per martirizzare l'Ucraina, non può fare nulla per te. Ora che i nemici interni della Repubblica Islamica già si giocano virtualmente a sorte la tua tunica, ipotizzando che a succederti (temporaneamente, perché il futuro è incertissimo) possa essere il tuo attuale vice, o un tuo ex ministro degli Esteri, o magari il tuo stesso figlio se i Pasdaran mai glielo permetteranno.

Ora che i tuoi diplomatici sono costretti a smentire che tre aerei iraniani tra cui quello presidenziale si siano diretti ieri in Oman con a bordo negoziatori incaricati di concordare una resa. Perché di resa dell'Iran non si deve parlare.

Ma del resto un regime con le armi ormai spuntate e con l'ombra incombente di Donald Trump addosso, cos'altro potrebbe fare dopo aver lanciato gli ultimi missili? Non rimane che la minaccia del terrorismo per sparigliare le carte, dei sequestri di persona di personale americano, oppure degli attentati terrificanti, qualcosa di brutalissimo e orrendo per spingere l'Occidente a preferire un compromesso. Prima di farsi schiacciare la testa, il serpente Khamenei sputerà tutto il suo veleno.

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