Una volta, evocare la Piazza Rossa significava richiamare l'immagine solenne della spianata di fronte al Cremlino, emblema di potere e ideologia. Oggi, almeno in Italia, l'espressione sembra aver assunto un significato tutto diverso: indica una delle tante piazze rosse che, con una certa regolarità, vengono occupate per proteste antigovernative.
Manifestazioni che, sebbene nominalmente solidali con cause internazionali come quella palestinese, si stagliano in realtà come sintomo di una più profonda inquietudine domestica. Mentre in Medio Oriente si cerca con fatica la via della pace, in Italia c'è ancora chi non si rassegna e continua a occupare le strade, interpellando polemicamente persino volti televisivi come Paolo Del Debbio incredulo nel chiedersi perché si protesti qui per questioni che altrove sembrano già avviate verso una soluzione.
Un analogo riflesso condizionato sembra aver contagiato anche la CGIL, ormai abituata a scendere in piazza quasi ogni fine settimana, come se la manifestazione fosse divenuta un rito identitario, un appuntamento fisso per riempire il weekend politico.
Il sindacato contesta la manovra economica del governo, ma lo fa su basi difficilmente comprensibili. I numeri raccontano, infatti, una realtà diversa: la linea di prudenza perseguita dall'esecutivo sta producendo risultati apprezzabili dal miglioramento dei rating del debito pubblico al successo dei BTP presso i risparmiatori e conferma una strategia di stabilità che l'Europa guarda con interesse. E, nonostante le accuse delle opposizioni, basta leggere le cronache economiche per scoprire che oggi i poveri assoluti, secondo le stesse definizioni statistiche, sono più numerosi in Francia e in Germania che non in Italia.
Il paradosso è che, per ragioni opposte, le critiche più fondate potrebbero venire dai liberali. Da un governo di centrodestra ci si sarebbe aspettati un passo più deciso verso la modernizzazione: riforme del mercato del lavoro, politiche di concorrenza più coraggiose, strumenti di previdenza integrativa anche in ambito sanitario capaci di superare il dogma di un servizio pubblico inefficiente e sovraccarico di liste d'attesa.
Allo stesso modo, stupisce la timidezza verso la concorrenza nei servizi: basti pensare al caso Uber, osteggiato da anni, che avrebbe potuto garantire un sistema di trasporto urbano più efficiente e accessibile, invece di condannare migliaia di cittadini, ogni giorno, ad attese interminabili e ricerche estenuanti di un taxi.
E ancora, l'approccio difensivo verso l'economia digitale: l'aumento delle imposte sulle piattaforme di prenotazione online come Booking o Airbnb che dovrebbero essere viste come alleate della crescita turistica o il sospetto che aleggia su Amazon, fino all'ostilità, spesso ideologica, nei confronti dell'intelligenza artificiale, la vera frontiera della rivoluzione economica e sociale globale.
Ne risulta un atteggiamento di cauta conservazione, che finisce per collocare il governo sulla stessa metà campo dei suoi oppositori, lasciando priva di rappresentanza la metà che guarda all'innovazione e al futuro.
In un contesto in cui Stati Uniti e Cina guidano la trasformazione tecnologica e industriale, l'Europa e l'Italia in particolare non può permettersi di restare ancorata a visioni passatiste o di temere il cambiamento. Continuare a ostacolare le nuove piattaforme, l'intelligenza artificiale o la concorrenza nei servizi significa frenare il motore stesso della crescita e del benessere di domani.
È dunque singolare che chi invoca una politica più moderna e liberale debba constatare come il dibattito pubblico sia oggi compresso tra un'opposizione che protesta per principio e un governo che, pur avendo garantito stabilità, esita ad affermare una visione riformatrice.
Guardare avanti richiede coraggio. Ed è forse proprio quel coraggio la capacità di immaginare il futuro invece di temerlo ciò che manca oggi alla nostra politica.
Perché ciò che difetta all'Europa, e all'Italia in particolare, è un deficit di crescita economica, figlio diretto di una visione passatista e di un eccesso di prudenza.
Un deficit che nasce dal timore di cavalcare le innovazioni per non turbare un'opinione pubblica che, invece, andrebbe incoraggiata ad accoglierle, a comprenderle, a farle proprie: perché solo così si fa crescere davvero un sistema.