
Recentemente lo storico Franco Cardini ha affermato che molti dei saperi considerati costitutivi della civiltà occidentale sarebbero in realtà stati importati da altre culture e ha sottolineato l'importanza universale degli insegnamenti del cinese Confucio. Può anche essere vero che noi occidentali abbiamo importato alcune idee da altri. Però
Una consolidata tradizione considera gli inizi (e anche l'origine) del pensiero occidentale nei detti di coloro che vengono indicati come i filosofi presocratici (VII-VI secolo a.C.), il primo dei quali, si crede, sia stato Talete. I presocratici ebbero una intuizione formidabile. Dissero che anche se tutti gli uomini muoiono, in ogni uomo c'è una realtà che continua oltre gli individui. E come per gli uomini, così per tutte le cose: in tutte c'è una realtà che oltrepassa la corruzione dei singoli e questa realtà la dissero arché, principio; che è appunto ciò che sta in ogni cosa senza risolversi in nessuna di esse e quindi neppure nella loro somma. Intuizione formidabile, si diceva: con essa si rispondeva in modo razionale all'angoscia dei Greci (e di ogni uomo) di fronte alla prospettiva della morte e, inoltre, mostrava il fondamento di ogni universalismo, giacché il principio è negli Elleni, nei Persiani o nei Papuasi.
È molto probabile che la visione del principio sia stata anticipata in altre culture. Talete stesso era detto il "fenicio" e alcuni studi (eccellente quello di Franco Chiereghin) hanno mostrato che già nei Veda indiani era presente l'idea di un "Grande Oltre" che teneva in uno tutte le realtà. Tuttavia, qui scatta il "però" di cui si diceva sopra. Quell'idea, quella del principio, intuita dai Greci, solo in Occidente è stata sviluppata in modo originale e duraturo.
Lo sviluppo si è attuato i due mosse. Con la prima, il principio è stato sottoposto a critica. Esiste veramente? E se sì, come lo si può dire in modo più articolato? La seconda mossa consegue alla prima: se un unico principio è in ogni cosa, è anche in ogni ragionamento. Quindi quando si confrontano tesi opposte, deve vedersi innanzitutto se l'opposizione è reale: infatti se uno dice cose contraddittorie non dice niente di sensato e quindi non si oppone veramente. Quando poi, tolte le contraddizioni, restano in piedi tesi diverse, dovremo cercare cosa ci sia in comune fra loro, dovremo effettuare una mediazione. Nasce così, soprattutto ad opera di Platone ed Aristotele, il metodo dialettico: metodo detto da Erodoto il principio costitutivo della cultura ellenica e per essa divenuto costitutivo dell'intera cultura occidentale. Metodo che rappresenta la via per ogni tipo di ricerca (ancora Aristotele), sicché in ogni disciplina si impone la necessità prioritaria di comprendere il punto di vista di chi sostiene un'opinione divergente, in modo da poterla discutere fino ad arrivare con mezzi razionali ad una prospettiva comune. Così è stato quando c'è stato progresso, nella filosofia, nel diritto, nella politica e anche nella scienza: "provando e riprovando", come ha detto Galilei, dove "riprovando" non significa "provare di nuovo", ma "rimproverare", cioè confutare, falsificare.
Certo, in Occidente non siamo stati sempre fedeli a tali insegnamenti. Lo sappiamo tutti: abbiamo avuto anche noi i dogmatismi, le inquisizioni, le dittature. Ma noi, spesso negletto e nascosto, noi continuiamo a conservare nel nostro deposito culturale questo elemento del tutto proprio: risolvere le divergenze con il confronto dialogico.
E allora bisogna conoscere la specificità della nostra storia: bisogna conoscere come in essa il principio della discussione critica abbia agito e anche, a volte, sia stato tradito, così che si sappia ricorrere all'attitudine dialettica occidentale quando si voglia pensare ad un autentico universalismo, che non sia soppressione degli avversari con la violenza o imposizione delle idee con la forza. È depositato da noi un criterio di convivenza che non esclude nessuna forma di diversità e invita a discuterle tutte.*Professore emerito di Filosofia del Diritto nell'Università di Padova