Trumpiani d'Europa crescono. È il loro momento, indubbiamente: decenni di punti fermi nelle relazioni internazionali sembrano venir meno proprio per iniziativa del prossimo presidente degli Stati Uniti, aprendo spazi fino a poco tempo fa insperati ai sostenitori del protezionismo in economia, ai nazionalisti ostili all'unità europea a trazione tedesca, senza dimenticare gli avversari dell'atlantismo colonna portante delle relazioni tra Europa ed America da settant'anni a questa parte. Ciascun Paese ha le sue particolarità e le sue sfumature, ma Trump è un'ispirazione e un punto di riferimento per un intero campo politico.
È dunque la stagione dei Farage e delle Le Pen, dei Wilders e delle Petry, degli Orbàn e dei Kaczynski, in Italia dei Salvini e delle Meloni (per tacere dei Grillo). Più a oriente, poi, c'è il grande mentore del Donald d'America, quel Vladimir Putin che molto scommette sulla capacità del successore del detestato Obama di scardinare un sistema che ha nella Russia un contraltare e un nemico storico: da qui le accuse, in diversi casi fondate, di un interessato sostegno anche economico da parte di Mosca al fronte genericamente etichettato come populista e antieuropeo.
Nigel Farage, il leader ormai dimissionario («per raggiunti obiettivi politici», ha detto lui dopo il trionfo referendario della Brexit) dell'Ukip, sarebbe stato il perfetto referente in Inghilterra per Trump, che in effetti aveva tentato in modo assai irrituale di suggerirne addirittura la nomina ad ambasciatore britannico a Washington. Fallita l'impresa, The Donald si è dovuto accontentare di Theresa May, la premier conservatrice che solo per rispetto della volontà popolare si è acconciata a gestire l'uscita del suo Paese dall'Ue: a lei ha offerto un «rapido ed equo» accordo commerciale preferenziale angloamericano, da negoziare in amicizia alla Casa Bianca.
Non a Washington ma a New York è stata ripresa nei giorni scorsi Marine Le Pen, più probabilmente in visita privata all'inquilino della Trump Tower che all'Empire State Building. La leader della destra sovranista conta, alle presidenziali francesi del prossimo aprile, di giocarsela alla pari in una tirata partita a tre con il gollista François Fillon e con quell'Emmanuel Macron che da posizioni di centro potrebbe attirare a sé i voti di una sinistra allo sbando. La Le Pen è certamente la più «putiniana» dei sovranisti europei e forse anche per questo la più vicina al sentire di Trump. E come lui spererà fino all'ultimo in una vittoria data per impossibile da sondaggisti e analisti.
Solo il minor peso del suo Paese impedisce all'olandese Geert Wilders, sovranista antieuropeo a 24 carati, di figurare presso l'opinione pubblica internazionale come il trumpiano numero uno. Quando il tycoon repubblicano vinse le presidenziali americane, Wilders evocò lo sbocciare di «primavere europee» che avessero come esito finale la disgregazione dell'Ue: proprio come Trump ha auspicato lunedì scorso nella sua già famosa intervista al Times.
Anche Frauke Petry, nemica numero uno di Angela Merkel in Germania e di tutto ciò che la Cancelliera rappresenta dall'europeismo all'immigrazione di massa, non ha perso tempo a congratularsi con il neo eletto Donald Trump, salutando entusiasticamente «la notte che ha cambiato gli Usa, l'Europa e il mondo».
Inutile dire che anche per Viktor Orbàn, il premier ungherese che già l'anno scorso non esitò a sfidare i fulmini di Bruxelles costruendo barriere fisiche ai confini del suo Paese per impedire l'arrivo dell'ondata migratoria in arrivo dai Balcani, Donald Trump - l'uomo che vuol costruire migliaia di chilometri di muro ai confini meridionali e farlo pagare al Messico - è un mito e un'ispirazione.
In Italia il fronte trumpiano può contare sul leghista Matteo Salvini e su Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia, accomunati dallo slogan «il popolo ha sconfitto l'establishment».
Una parola quest'ultima molto presente anche nelle dichiarazioni di Beppe Grillo, in verità mai un entusiasta di Trump fino al giorno della sua vittoria, che gli ha però dato l'occasione di esternare su «un vaffanculo generale e l'apocalisse degli intellettuali e dei giornalisti». Nulla di nuovo, ma va di moda.
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